La guerra sul palcoscenico. Intervista a Lola Arias

Parola alla regista argentina che sta per approdare al Romaeuropa Festival con uno spettacolo legato alla guerra delle Falkland.

Chi ricorda la guerra delle isole Falkland, che ha visto opporsi inglesi e argentini per il controllo delle isole a sud del territorio argentino, nel non lontano 1982? L’Inghilterra ne uscì vincitrice e ancora oggi la sconfitta è una ferita non risanata nella coscienza del popolo argentino, che, tra vicissitudini politiche ed economiche, vive un presente frutto di un passato recente da cui tenta con forza di emanciparsi.
Lola Arias (Buenos Aires, 1976) è l’autrice di una ricerca sul tema durata anni, che ha dato vita a uno spettacolo (oltre che a un film e un’installazione). Con Minefield la giovane artista porta in scena i reduci dei due fronti non con un desiderio di riconciliazione ma di creazione di un fronte comune, quello di chi la guerra l’ha vissuta e necessariamente ne porta i segni. Dopo aver girato i diversi continenti, Minefield arriva in Italia ed è in scena al teatro Vascello di Roma, per Romaeuropa Festival il 16 e 17 novembre. Il 20 novembre, invece, è prevista a Milano, una master class dell’artista allo studio K, durante la quale sarà presentata la videoinstallazione Veterans.

L’INTERVISTA

Con Minefield hai radunato sei veterani della guerra delle Falkland, che nel 1982 ha visto l’allora dittatura Argentina combattere contro l’Inghilterra per il possesso dei territori delle isole Falkland, appunto.
Come giustamente dici, questo spettacolo porta in scena tre veterani argentini e tre veterani inglesi, non quindi attori ma persone che hanno fatto la guerra e che si incontrano per la prima volta per questo spettacolo. Ci sono voluti due anni per scegliere questi sei performer, un tempo lungo, durante il quale ho studiato, fatto ricerca e intervistato settanta veterani. Anche se è stata una guerra breve, durata due mesi, ha comunque causato circa 670 morti. E a oggi il problema delle isole Falkland ‒ che sono molto vicine alla Patagonia e quindi al nostro territorio ‒ è un tema ancora molto scottante, soprattutto in Argentina, dove continuiamo a rivendicare il diritto alla sovranità su queste isole.

Hai definito questo progetto e questo spettacolo un “progetto sociale“, cosa intendi?
È stato e continua a essere un esperimento sociale, che consiste non solo nel portare queste persone in scena insieme, ma anche nel fare in modo che si ascoltino: cosa succede nel portare insieme in scena degli ex-nemici con l’obiettivo di ricostruire le loro memorie di guerra? Quali sembianze assume l’incontro? È possibile incontrarsi e tornare indietro con la memoria al tempo della guerra per cercare di ricostruire cosa è successo e perché è successo…? Cosa è sopravvissuto nella memoria fino a oggi di questo passato?

Lola Arias, Minefield, photo Tristram Kenton

Lola Arias, Minefield, photo Tristram Kenton

Quanto tempo sono durate le prove?
Tutto è iniziato con le interviste a Buenos Aires e in Inghilterra, poi ho diretto due workshop ‒ nei due Paesi ‒ con i performer selezionati. A seguire tre mesi di prove in Argentina e infine uno a Londra, dove lo spettacolo ha debuttato. Da allora lo spettacolo è in tournée da due anni, abbiamo girato tutto il mondo, siamo già stati in ventisette città.

Come è accolto dal pubblico lo spettacolo?
Minefield ha un impatto molto forte sugli spettatori, anche su coloro che non sanno nulla della storia delle Falkland. Perché non racconta solo questa guerra specifica, ma affronta il problema dell’effetto delle guerre sulle persone, del trauma della guerra, quali siano le conseguenze e come affrontarle.

Come hai lavorato con questo gruppo di veterani / attori?
Sono già dieci anni che mi occupo di teatro documentario, lavorando con attori cosiddetti “non professionisti”, con persone vere e con le loro storie. Per me, una volta sul palcoscenico, sono attori a tutti gli effetti. All’inizio del lavoro ci sono lunghi momenti di discussione, capaci di affrontare temi anche molto personali, poi si inizia a mettere insieme queste storie in un testo e si dà il via alle prove. È un processo lungo che porta questi non professionisti a conoscere e far proprie le pratiche attoriali. In questo caso la musica ha avuto un ruolo molto importante, poiché live. Abbiamo suonato insieme, il che ci ha permesso di comunicare senza l’uso del linguaggio parlato, poiché, come è facile immaginare, un grande ostacolo è stato la lingua. Nessuno parlava altro oltre alla propria lingua madre.

Ci sono stati momenti particolarmente emotivi o difficili durante le prove?
Momenti critici, molti alti e bassi. Riportare a galla la memoria è primariamente un processo emotivo, amplificato dal dispositivo che mette insieme le due parti del conflitto. Non sono mancati momenti di irritazione o tentativi di abbandono, ma anche reale connessione e comprensione. E questo lungo processo continua ed è alimentato d ogni nuova replica, che li porta di nuovo a dividere il palcoscenico e il tempo del quotidiano, fatto di un vivere insieme. Questo stare insieme ha avuto un grande impatto sulla loro percezione dell’esperienza di guerra.

Lola Arias, Minefield, photo Tristram Kenton

Lola Arias, Minefield, photo Tristram Kenton

In questo senso, Minefield svolge anche un ruolo di riconciliazione. Potrebbe essere questa una chiave di lettura del finale dello spettacolo, che il pubblico vedrà in queste serate?
Non amo molto la parola “riconciliazione” perché porta sempre con sé un senso di perdono e oblio. Qui si tratta invece di riuscire a creare qualcosa insieme, nonostante il disaccordo tra le due parti e in un certo senso il conflitto ancora aperto. Non per radicalizzare la tensione, ma per essere in grado di lavorare con questa tensione.

La Storia è quasi sempre raccontata dagli uomini. Credi che noi, in quanto donne, possiamo offrire uno sguardo differente sul nostro passato e sulle nostre identità nazionali?
Sì, assolutamente. In molti sono rimasti sorpresi dal fatto che una regista donna avesse deciso di produrre uno spettacolo sulla guerra, perché la guerra sembra essere un tema da uomini. E in effetti ciò che mi ha mossa è il desiderio di costruire un’altra narrativa della guerra, che non riguardasse le battaglie, le tattiche, gli eroi, ma piuttosto la memoria, le tracce, i fantasmi che non ci abbandonano, le debolezze piuttosto che la forza. L’umanità insomma, che è anche un tema di guerra. Questo essere in grado di uccidere e morire per il proprio Paese rappresenta il limite dell’essere uomo e tanti uomini vi sono stati confrontati. Affrontare questi temi è stata una vera prova per me, in quanto artista e donna, altrettanto lo è stato lavorare con uomini, specialmente gli inglesi, abituati a dare ordini ad altri uomini. Per loro accettare l’autorità di una donna, per di più argentina, è stato molto difficile.

La tua attività artistica non si esaurisce solo nel teatro. Anche questo lavoro sulla guerra delle Falkland ha visto altri sbocchi: un’installazione, un film in particolare… 
Sì un film, Theater War, che è stato presentato alla Berlinale, e già in molti festival in tutto il mondo. Sono gli stessi attori dello spettacolo, ma non si tratta di un film backstage testimonianza del processo di creazione, piuttosto affronta la stessa storia ma con un’angolatura diversa. C’è stata un’installazione video e anche un libro bilingue. Insomma un progetto che ha preso forme diverse e ha riempito ben cinque anni della mia vita.

Regista teatrale, artista visiva e cinematografica, cosa senti che lega tutte questi linguaggi nella tua poetica e pratica?
Ho iniziato la mia pratia artistica con la scrittura. Sono sempre stata una scrittrice. Poi ho iniziato a recitare. Passando alla regia ho introdotto il video in scena e così ho iniziato a interessarmi alle arti visive. Ma si tratta dello sviluppo di una stessa pratica che assume forme diverse: storytelling, il desiderio di narrare storie altrui, biografie spesso, ridare loro vita, fare reenactment del passato. È questo il centro del mio lavoro.

Lola Arias. Photo Catalina Bartolomé

Lola Arias. Photo Catalina Bartolomé

Sai nata in Argentina durante la dittatura, hai vissuto la guerra, anche se con distacco, poiché eri bambina. Da qui, da lontano, vediamo l’Argentina cambiare molto in questi ultimi anni. Tu cosa puoi dirci? Cosa caratterizza il vostro presente?
Una grande domanda! Sono nata sotto l’influenza della dittatura, tutto intorno un senso di timore, di limitazione della libertà di espressione, di segreti, di violenza. Un’esperienza che, per le persone della mia generazione – io avevo sei anni quando la dittatura è crollata ‒, resta impressa nel subconscio, se non nella memoria razionale. My life after è il mio spettacolo che affronta questi temi, i resti della dittatura, ciò che è rimasto nelle nostre vite. Penso che la società abbia bisogno di questi momenti di memoria collettiva per guardare al presente.
Quando Macri ha preso il potere si è instaurata una politica volta all’amnesia collettiva. Personaggi della dittatura sono stati tolti dalle prigioni e messi ai domiciliare, il numero delle persone uccise dalla dittatura è stato rivisitato al ribasso. Questo processo di cancellazione della storia è stato accompagnato da una linea politica estremamente neo-liberale, che ha posto le basi per lo stato di insicurezza economica e povertà in cui viviamo. È un periodo di forte inflazione e problemi economici, salari sempre più bassi, riduzione delle pensioni, mancanza di supporti statali, la cultura è sempre meno finanziata. Insomma, una forte regressione.

C’è, nonostante tutto, qualche segnale positivo?
In questo momento, la sola nota positiva è il progressivo rafforzarsi del movimento femminista. Stiamo combattendo per la legge sull’aborto, che è stata discussa al Parlamento e ora lo sarà al Senato. L’Argentina è un Paese molto cattolico, in cui ancora si crede che l’aborto sia un’azione contro la vita. Noi siamo a favore della vita, di tutte quelle donne che muoiono a causa di aborti illegali in condizioni terribili. Vedere tutte queste donne insieme, unite da una battaglia comune, ispira in me una grande fiducia.

Chiara Pirri

L’intervista è stata realizzata per i programmi di sala di Romaeuropa Festival.

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Chiara Pirri

Chiara Pirri

Chiara Pirri (Roma, 1989), residente a Parigi, è studiosa, giornalista e curatrice, attiva nel campo dei linguaggi coreografici contemporanei e delle pratiche performative, in dialogo con le arti visive e multimediali. È capo redattrice Arti Performative per Artribune e dal…

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