Le 4 migliori copertine degli album di Franco Battiato

Da “L’era del cinghiale bianco” a “La voce del padrone”, abbiamo selezionato alcune memorabili cover degli album di Franco Battiato, scomparso poche settimane fa.

A perdere, dal nulla, in un martedì come tanti altri, Franco Battiato, non ci si abitua facilmente. All’improvviso, fra generazione Y, X e (si spera) anche qualcuno della Z, tutti ci siamo ritrovati a pensare a qualche disco del ‒ Cuccurucucu, L’era del cinghiale bianco, Ruby Tuesday. Che poi, sui social e suoi media, tra pose durante i concerti e look mai visti, capita di imbattersi in un altro grande topos della produzione artistica di Franco Battiato: le cover degli album.
Registrati in studio, si contano trenta album, dal primo ‒ Fetus ‒ all’ultimo ‒ Torneremo ancora, con la Royal Philarmonic Orchestra ‒, più un’altra ventina fra raccolte, live e colonne sonore. Proprio come la sua musica, le copertine dei dischi di Battiato non sono mai state qualcosa di definito. Tutt’altro. Hanno, invece, rappresentato a pieno l’esplosione metafisica e fantascientifica della sua verve musicale, ogni volta con declinazioni nuove e diverse. Un sound che fra melodie orientali e testi esoterici ha definito un periodo della musica italiana imparagonabile anche con l’interessante leva dei giovani artisti di oggi. Ma, appunto, se c’è una cosa che nemmeno i migliori graphic designer riusciranno a pareggiare sono le cover dei suoi album ‒ pensate, tra l’altro, per apparire nelle dimensioni degli EP, e non sui dischi o, come oggi, sulle piccole icone di Spotify. Merito di Francesco Messina, artista poliedrico (musicista, disegnatore, pittore) che, affiancando Battiato nella composizione artistica dei suoi album, ha concretizzato al meglio il suo talento disegnando le copertine di quegli album. Ecco i migliori quattro.

Riccardo Belardinelli

L’ERA DEL CINGHIALE BIANCO

Franco Battiato, L'era del cinghiale bianco (1979)

Franco Battiato, L’era del cinghiale bianco (1979)

Non c’è una copertina nella produzione di Battiato che sappia esprimere meglio di quella de L’era del cinghiale bianco il suo misticismo e la ricerca di una dimensione superiore alla realtà terrena ‒ lui stesso disse durante un’intervista a Linkiesta: “La musica è un mezzo, non un fine”.
Incorniciato da una sequenza di iconografie del mondo classico ‒ riferimenti alla cultura egizia, pitture di vasi greci, texture di estrazione barocca e “bozzetti” scientifici ‒, c’è un mare in cui è immersa la musica di Battiato, quelle 9 tracce de L’era del cinghiale bianco. E infatti al centro dell’album c’è lo stesso Battiato, colpito da un fascio di luce che penetra lo sfondo, risparmiando l’elefante in basso a sinistra e gli isolotti infasciati da linee déco. Il sapere spirituale o universale, riferimento iconologico del cinghiale bianco, è quello che Battiato cerca attraverso la sua musica. In questo album, Battiato cerca dagli antichi e dalle culture orientali tracce a cui aggrapparsi per andare oltre la conoscenza materiale; segnali incastrati nella cornice perimetrale di questa copertina.

CLIC

Franco Battiato, Clic (1974)

Franco Battiato, Clic (1974)

A prima vista si direbbe: ci sono analogie con i Pink Floyd? No, la band progressive inglese non c’entra nulla con il Maestro, anche se la cover dell’album Clic, del 1974, si avvicina molto alla palizzata di mattoni di Another Brick in The Wall. Eppure, quella di Clic è fin troppo originale come copertina, l’unica che porta la firma dell’artista di Ionia. La griglia nera su sfondo bianco è simbolo del suo sperimentalismo fonico: Clic contiene alcune delle tracce musicalmente più esplorative di Battiato, che in quel periodo (a cavallo fragli Anni Settanta e Ottanta) stava vivendo una fase della carriera molto introspettiva, alla ricerca di un suono non ancora approfondito.
La griglia della cover è insieme una mappa e una ricerca. Ricorda il display dei radar dei sottomarini, alla ricerca di qualcosa di personale ‒ i suoi sentimenti umani, prima che di artista, sono esibiti in molte tracce; allo stesso tempo, la griglia è anche un quadrante che definisce appunto la sua fase sperimentale, e ai tempi, una texture di questo tipo era ritenuta avanguardista, mai vista prima.

LA VOCE DEL PADRONE

Franco Battiato, La voce del padrone (1986)

Franco Battiato, La voce del padrone (1986)

La voce del padrone è il secondo album più venduto dell’artista siciliano, primo in classifica per due settimane nel 1981, anno della sua uscita. Si tratta di un album musicalmente più vicino ai gusti del pubblico: pur essendo un disrupter della musica italiana, Battiato ne La voce del padrone è stato meno introverso e filosoficamente bulimico di altre produzioni. Lo testimonia sia la presenza di tracce come Summer on a solitary beach o Cuccurucucu, spensierate, leggere, vacanziere. Come la cover.
Nel rilassante blu che incornicia uno sfondo celeste ‒ lo stesso dei costumi, pare ‒, delle palme accompagnano un Battiato seduto, sul niente. Lo sguardo riflessivo verso sinistra è rilassato, ma sempre con un’espressione pensante. La sedia (o sdraio) che dovrebbe sorreggerlo è stata tolta e in basso, sulla destra, c’è un coacervo di costellazioni su sfondo nero, un piccolo riferimento all’universo, che viene toccato più volte nell’album come luogo di ricerca. Della tranquillità, della propria dimensione, del centro permanente.

L’ARCA DI NOÈ

Franco Battiato, L'arca di Noè (1982)

Franco Battiato, L’arca di Noè (1982)

La copertina de L’arca di Noè ha, neanche a dirlo, un primo impatto onirico. Prima di accorgersi che quel sottobosco di puntini neri sotto il titolo dell’album sono figure di animali, quello che rapisce immediatamente l’attenzione è il grande disegno al centro. Ma è un’immagine cupa, con le tenebre che abbracciano una grande montagna circondata da steppe, un’immagine che esprime il senso di un viaggio e che non può non mostrare il cielo stellato ‒ quell’eterno riferimento all’universo delle canzoni del cantautore siciliano. È un Battiato un po’ controverso quello di questo album, con una critica divisa sull’apprezzamento dei testi di questa produzione ‒ in particolare è da sottolineare una polemica con La Stampa ‒ e che, dopo il successo de La voce del padrone, vende molte copie, ma si installa su temi e riferimenti un po’ più grigi rispetto alle spiagge e alle danze dell’album precedente.
Graficamente, però, L’arca di Noè è un capolavoro. Il contrasto tra il disegno della montagna ‒ blu, scuro ‒ e il bianco che lo circonda esprime una grande eleganza. La stessa visione della montagna è qualcosa di rilassante, che in riferimento ai testi del cantautore siciliano simboleggia anche il topos della forza della natura, del viaggio che l’uomo fa verso nuove frontiere, come si coglie anche nei testi delle canzoni. Segnali di rotture, di abbandono, di fughe, di tutti che se ne vanno su una grande arca.

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Riccardo Belardinelli

Riccardo Belardinelli

Laureato in Lettere Moderne a Siena e specializzato in Editoria e Comunicazione all’Università Statale di Milano – con una tesi sulla Cancel Culture –, ha lavorato nelle redazioni de La Gazzetta dello Sport e Rivista Undici. Attualmente lavora nell’editoria indipendente…

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