The Dreamers, Saltburn e la rappresentazione della nudità maschile al cinema

Il recentemente restaurato capolavoro di Bertolucci e il chiacchierato nuovo film di Emerald Fennell offrono due diverse rappresentazioni del nudo integrale maschile, la cui sottorappresentazione rispetto alla sua controparte femminile è chiaro simbolo di un cinema ancora di stampo patriarcale

Lasciarsi sfuggire la possibilità di vedere al cinema The Dreamers sarebbe un delitto. Ancor più per qualcuno che nel 2003, quando il capolavoro di Bernardo Bertolucci fu distribuito nelle sale, era decisamente troppo giovane, come il sottoscritto. Ma è proprio attraverso lo sguardo di un ventenne che questo film acquista senso, anche a due decenni dalla sua uscita e a oltre cinque dagli eventi della narrazione. Il caso, o loZeitgeist, volle che la pellicola di Bertolucci fosse restaurata e ridistribuita nelle sale italiane nelle stesse settimane in cui i social e il web sono attraversati e divisi da quello che senza troppi rimorsi possiamo definire il film del momento: SaltburnCon la partecipazione di Jacob Elordi e del talentuoso Barry Keoghan, l’ultima fatica di Emerald Fennell è stata accolta da alcuni come un cult, da altri come “un avanzo da fast-food”. Se la trama di The Dreamers è ben nota – il triangolo erotico-cinefilo che si viene a creare tra i giovani gemelli Theo e Isabelle (un’indimenticabile Eva Green) e lo studente americano Matthew sullo sfondo di una Parigi incendiata dal Sessantotto – quella di Saltburn segue la scalata (o la catabasi) del personaggio di Oliver Quick e il suo rapporto con Felix Catton, suo compagno di studi ad Oxford che lo invita a trascorrere l’estate nella sua inconcepibilmente sfarzosa tenuta; un’estate che si rivela presto la pagina su cui scrivere trame di menzogne, delitti e perversioni.
The Dreamers Saltburn sono certamente prodotti differenti; non si tenta, in queste righe, di confrontarli sulla bilancia della qualità: sarebbe inutile ribadire il peso del primo. Tuttavia, trovo interessante considerare alcuni elementi in comune, che permettono di aprire il discorso al di là dello schermo (piccolo o grande che sia). 

Barry Keoghan in una scena di Saltburn di Emerald Fennell, 2023
Barry Keoghan in una scena di Saltburn di Emerald Fennell, 2023

Il nudo maschile in “Saltburn” e “The Dreamers”

Partiamo dalla fine. Nell’ultima sequenza di Saltburn, un festoso Barry Keoghan balla nudo sulle note di Murder On The Dancefloor di Sophie Ellis-Bextor, per tutta la durata della canzone. Un nudo integrale che, com’era prevedibile, ha scatenato il web, con tanto di battuta dedicata sul palco dei recenti Golden Globes. Certo, non è il momento più sconvolgente del film, e probabilmente non figura nemmeno sul podio, ma il clamore mediatico scaturito è un sintomo chiaro, che non si manifesta nella sua controparte femminile: il nudo maschile, nei film, è ancora un tabù.
Vent’anni prima, sugli schermi di tutto il mondo, Bertolucci mostrava i corpi dei giovani attori Michael Pitt e Louis Garrel, senza bisogno di scene pretenziose costruite ad hoc. In The Dreamers, la nudità – tanto maschile, quanto femminile – è normalità. E lo è in maniera progressiva. Se prendiamo come punto di partenza un Matthew che, intimidito dalla totale libertà (e curiosità) di Theo, è restio a farsi vedere svestito di fronte ai suoi due nuovi amici parigini, riusciamo a costruire una parabola dell’accettazione della nudità. C’è un preciso momento di passaggio, che è tuttavia violento: lo svenimento di Matthew sul tavolo della cucina, tra le braccia di Theo. 

Louis Garrel, Eva Green e Michael Pitt in una scena di The Dreamers di Bernardo Bertolucci, 2003
Louis Garrel, Eva Green e Michael Pitt in una scena di The Dreamers di Bernardo Bertolucci, 2003

La rappresentazione del nudo maschile e femminile al cinema

A mio avviso, sempre con le dovute differenze, sono tanti i fili che si possono tracciare tra questi due film: l’autoerotismo, la bisessualità, il desiderio morboso, la necessità estrema di sentirsi parte di qualcosa. Ma è ancora la nudità, e precisamente quella integrale e maschile, nel confronto tra le due rappresentazioni, a dirci qualcosa in più su come guardiamo quello che guardiamo. Al cinema, i genitali maschili sono ancora scandalosi, e lo sono sempre stati. La nudità femminile, tanto nella sua accezione quotidiana quanto in quella sensuale, è ormai compresa, accettata, quasi scontata. Quella maschile si rivela la testimonianza di uno sguardo sociale certamente poco abituato e fino ad oggi ancora legato a quello che “vogliamo” vedere, prendendo in considerazione esclusivamente il punto di vista maschile eterosessuale e ampliandolo a tutta la platea. C’è poco da prendersi in giro, il corpo femminile è più facilmente nudo sul grande schermo perché agli uomini (etero) piace così; perché anche nei momenti in cui la nudità non vorrebbe accostarsi al sesso, il voyerismo emerge forte e chiaro. Non che l’apprezzare un corpo nudo sia un qualcosa di necessariamente negativo: accade anche a parti inverse con il pubblico femminile ed è alquanto naturale. Quello che non è naturale (e che invece è una potente indicazione dello stato delle cose) è la conseguente disparità di rappresentazione del nudo in base al sesso del suo personaggio, in cui non possiamo non considerare il ruolo avuto dalla pornografia.

Una scena di Saltburn, il nuovo film di Emerald Fennell, 2023
Una scena di Saltburn, il nuovo film di Emerald Fennell, 2023

I tabù culturali sul nudo maschile

Per non parlare delle rimanenze culturali legate all’esposizione del corpo nudo maschile e femminile, come ricorda Naomi Wolf nel suo libro Il mito della bellezza, preziosamente ripubblicato da Tlon negli scorsi mesi: la virilità mostrata nel suo stato di riposo è letta come simbolo della mancanza di virilità stessa. È un depotenziamento dell’uomo, una sua relegazione alle insicurezze evocate dall’atavica questione della misura. D’altra parte, l’erezione è fin troppo pornografica ed esplicita per trovare posto al cinema. E il fatto che tale nudità non sia mostrata tanto quanto lo è quella femminile non è che la conferma di un cinema fatto dagli uomini per gli uomini, per nascondere le nostre insicurezze e al contempo celebrare e soddisfare il nostro sguardo conquistatore del corpo delle donne. E – sebbene gli ultimi anni stiano determinando un cambiamento radicale in questo, riconoscendo un pubblico variegato in termini di genere e preferenze sessuali – questa disparità di rappresentazione è inequivocabilmente una delle più palesi strutture patriarcali presenti tuttora nel cinema. Scrivo “tuttora” perché, nonostante il valido esempio di Bertolucci nell’equiparare genitali maschili e femminili, il nudo di Keoghan e il suo clamore (dalla natura tuttavia decisamente meno esplicita) dimostrano ancora che l’uomo senza veli è qualcosa di inaspettato, curioso, stravolgente; anche, bisogna dirlo, per le modalità di costruzione della scena stessa, che in questo rispecchiano quelle di tutta la pellicola, con le sue atmosfere che attingono a piene mani dal cinema di Yorgos Lanthimos e Ruben Östlund, e ancor prima di Lars Von Trier, cercando di cavalcare l’onda di un perturbante distaccato, un freddo Unheimlich fin troppo evidentemente costruito a tavolino e, dunque, eccessivamente affettato.

Alberto Villa

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Alberto Villa

Alberto Villa

Nato in provincia di Milano sul finire del 2000, si occupa di arte contemporanea scrivendo per magazine di settore e curando mostre. Si laurea in Economia e Management per l'Arte all'Università Bocconi con una tesi sulle produzioni in vetro di…

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