L’arte rotta (IX). Contagio e responsabilità

In ore difficili e tese come queste, far appello al buon senso individuale è l’unica via praticabile. E anche la più pericolosa. E l’arte cosa può fare?

In questo momento la preoccupazione diffusa e il sovraccarico informativo spesso ci impediscono di pensare, eppure è proprio adesso che dobbiamo provare a riflettere.
Mentre infatti le notizie si susseguono a un ritmo difficile da assorbire, sembra evidente una certa sottovalutazione del problema che stiamo affrontando: l’idea che il “contagio” riguardi sempre un altro posto, altre persone, per esempio, e il desiderio di continuare il più possibile la propria esistenza con i suoi riti sociali irrinunciabili. Trovo abbastanza fastidioso il vantarsi in questi giorni di ‘essere più forti e coraggiosi del virus’, lo sfoggiare questo cinismo/fatalismo di maniera, e anzi il voler propagandare una riunione o un assembramento quasi come un atto di resistenza.
È chiaro che purtroppo questa situazione sta facendo emergere in maniera lampante ciò che da anni sostanzia il nostro stare al mondo, i nostri comportamenti culturali. La likeability di cui questa serie di pezzi ha parlato finora è anche, forse soprattutto, questo: una forma abbastanza grave di dissociazione dalla realtà, di incapacità di considerare l’altro, e di concentrazione esclusiva sui propri bisogni. Di individualismo e di egoismo.
La likeability è la forma attuale della retorica, e la retorica è qualcosa a cui noi in Italia siamo da secoli molto affezionati: è il modo principale per tenere ben distinti la realtà e la nostra interpretazione di essa, come se i due livelli potessero sempre scambiarsi a vicenda e sovrapporsi. Non è così ‒ e un’epidemia lo sa bene, a differenza degli esseri umani evidentemente.
L’arte e la cultura non “sconfiggono il virus” proponendo alle persone di riunirsi comunque, nonostante tutto, in forme più o meno pubbliche: questo è anzi un modo particolarmente pericoloso di rimanere ostinatamente agganciati a una mentalità che, nella situazione attuale, non funziona assolutamente.

CINA E LOMBARDIA

Riporto qui un passaggio da un articolo di qualche giorno fa, che mi sembra molto importante perché spiega chiaramente come mai dei contagiati in Lombardia uno solo sia cinese: “Piccolo passo indietro. A quando nella seconda metà di gennaio il Coronavirus esplodeva in Cina. E in Lombardia, pur senza nessun caso di positività, si apriva la polemica politica su come isolare la comunità cinese. Si alzò un polverone. Gli unici a non fare polemica furono proprio i cinesi. Perché loro in auto-quarantena si erano messi da soli. Spesso raddoppiando quella già fatta in Cina prima di partire. Un doppio isolamento. Una linea dettata, oltre che da comportamenti etici, dalle associazioni cinesi, supportate da ambasciata e consolato, che mandavano raccomandazioni invocando responsabilità. Un mese abbondante dopo, quella sembra l’unica strategia che paga. Vivendo l’autoisolamento come una religione. Fa parte di un rispetto delle regole che è anche aspetto culturale. Una filosofia talmente radicata da reggere soprattutto nell’emergenza. ‘Io sono responsabile anche e soprattutto degli altri. Io perdo la faccia e la stima se contagio qualcuno perché non ho rispettato le regole sociali che mi avevano imposto’, spiega Francesco Wu, tra i riferimenti della comunità cinese locale”.

Serena Fineschi, About Decadence (Trash Series), 2019. Photo credits Elena Foresto

Serena Fineschi, About Decadence (Trash Series), 2019. Photo credits Elena Foresto

L’ARTE È ROTTA?

La vera opera d’arte in questo momento è il prendersi cura degli altri, a vicenda – e il prendersi cura consiste nell’isolarsi per un po’ di tempo. L’aggregazione non è un bene, adesso. È un concetto controintuitivo, certamente: ma se ci pensiamo, non ha alcun senso ragionare su ciò che l’arte può fare in una fase del genere, se poi magari si tende nella vita di tutti i giorni a mettere in pericolo l’esistenza degli altri per un malinteso senso di ‘eroismo’.
È inutile e sbagliato pretendere che le cose ora vadano esattamente come prima: se l’arte non è decorativa ma ha una funzione – e ce l’ha ‒, questa consiste nell’indicare l’importanza estrema della capacità e della volontà di modificare momentaneamente il proprio stile di vita, per proteggere gli altri prima che se stessi. Altrimenti, vuol dire che le opere (insieme ai modi di mostrarle e fruirle) e le idee a esse collegate sono davvero semplici oggetti, prodotti disconnessi dalla realtà quotidiana ‒ che non intrattengono alcun rapporto con la realtà quotidiana e con le nostre scelte. Vorrebbe dire che l’arte è rotta sul serio, quando invece ora ha l’occasione di contribuire a ricreare un vero senso di solidarietà, di comunità e di responsabilità.
Statevene a casa.

Christian Caliandro

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L’arte rotta (I)
L’arte rotta (II)
L’arte rotta (III)
L’arte rotta IV
L’arte rotta V
L’arte rotta VI
L’arte rotta VII
L’arte rotta VIII

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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