Trump e il muro. La risposta dell’architettura

Dall’ironia all’indignazione, sono tante le reazioni che il cavallo di battaglia di Trump ha suscitato fra architetti e progettisti. Ecco una panoramica internazionale.

Un “impenetrabile, fisico, alto, potente e bellissimo muro al confine sud”. Sono state sufficienti queste cinque caratteristiche, elencate dal nuovo presidente degli Stati Uniti d’America nell’annuncio della prossima costruzione di una mega infrastruttura di sicurezza, destinata ad arginare l’ingresso irregolare dei migranti messicani, per sollecitare la comunità internazionale verso innumerevoli prese di posizione. Oltre al giudizio positivo, espresso dagli elettori di Trump, da più parti sono giunte opinioni allarmate, manifestazioni di imbarazzo e angoscia, talvolta accompagnate da desideri di emulazione.
La colossale opera, etichettata come pura manifestazione di megalomania e logisticamente irrealizzabile, affonda le proprie origini nel recente passato. Non si tratta dunque del proposito visionario dell’imprenditore che ha già espresso la propria idea di architettura replicando lo scintillìo del modello Trump Tower in giro per il globo. La prima legge in cui si sosteneva la necessità di erigere un muro fra Stati Uniti e Messico risale al 1996, durante la presidenza di Bill Clinton. Nonostante da allora sia stata aggiornata a opera di George W. Bush, solo la veemenza con la quale è stata di recente riproposta ha fatto conquistare a quella volontà edificatoria un’accezione di verosimiglianza.
La possibile estensione degli attuali 1.100 chilometri del confine, già esistente tra i due Paesi, non ha semplicemente frammentato l’opinione pubblica: ha alimentato interpretazioni e “variazioni sul tema”, schierando in prima linea il mondo della progettazione, insieme a quello dell’arte. L’investimento stimato per l’impresa, pari a 20-25 miliardi di dollari, e la complessità tecnica hanno accelerato l’ideazione di alternative provocatorie, talvolta derisorie. Ad alcune tra queste va riconosciuto il merito di aver attribuito un’identità visiva al proposito dell’uomo più potente del mondo.

Estudio 3.14, Prison Wall

Estudio 3.14, Prison Wall

TRA IRONIA E AMBIENTE

In Europa, il sito tedesco Der Postillon si è fatto strada grazie a una modalità di montaggio che strizza l’occhio ai libretti di istruzione forniti dal colosso scandinavo Ikea. Il Börder Wåll, “garantito per 5 anni”, prevede l’assemblaggio di migliaia di pannelli di legno di betulla, 4 milioni di viti e un manuale di 12mila pagine da consultare nella fase operativa. Con l’obiettivo di omaggiare su scala territoriale l’uso del colore di Luis Barragán, il maestro dell’architettura messicana, il team Estudio 3.14 ha immaginato il Prison Wall. Di base a Guadalajara, con la collaborazione del professor Hassanaly Ladha della University of Connecticut, questo studio ha esteso le potenzialità della struttura oltre la funzione primaria. Grazie alla sua silhouette rosa, che non passa inosservata, il muro attraversa gli oltre 3mila chilometri previsti sicuro e incurante del contesto: supera colline, aree desertiche, il limite naturale sancito dal Río Bravo del Norte. A caratterizzarlo, oltre all’identità cromatica, due “dotazioni aggiuntive”: un centro commerciale e una prigione, al cui interno potrebbero essere trattenute, identificate e “rieducate” fino a 11 milioni di persone.
Tiene invece conto delle caratteristiche ambientali non omogenee del territorio di inserimento, contraddistinto da emergenze naturali come le ben note porzioni aride, l’ipotesi messa a punto da DOMO Architecture + Design. Lo studio statunitense, con sede a Miami, ha interpretato il tema elaborando una versione edulcorata del concetto di confine. In Beautifying the Border, infatti, filo spinato, recinzioni artificiali e pannelli prefabbricati vengono messi al bando. A prendere il loro posto sono sistemi underground, tra cui molti fossati, concepiti per mantenere inalterata, almeno parzialmente, la visione prospettica del paesaggio: dividere due Stati sottraendo suolo, insomma, e negando al muro ogni evidenza tridimensionale.

Estudio 3.14, Prison Wall

Estudio 3.14, Prison Wall

LA RISPOSTA ITALIANA

In Italia, il collettivo italiano AoS – Architecture of Shame. Centro di ricerca e documentazione sulle relazioni tra Architettura e Vergogna, attraverso il proprio sito Internet sta analizzando la vicenda a partire da un preciso assunto teorico. Il team multidisciplinare – formato da Fabio Ciaravella, Cristina Amenta, Mimì Coviello, Clara Cibrario Asseretto, Stefano Benvenuti e Luca Centola, in attività dal 2015 – nel corso dell’ultima Biennale di Architettura di Venezia ha presentato un’indagine sul concetto di “non abitanti”; ora sta definendo alcune iniziative che convergeranno nel palinsesto di Matera 2019. L’approccio teorico di AoS si innesta su una dichiarata polarità: “Di quante architetture, quartieri, città intere oggi ci vergogniamo o dovremmo vergognarci? Quante di queste occasioni d’imbarazzo, al limite tra l’intimo ed il collettivo, domani potrebbero essere riconosciute Patrimonio dell’Umanità? Quali, al contrario, segnano il limite, cangiante, tra giusto e disonorevole, tra organizzazione virtuosa o imposizione colpevole dello spazio collettivo?”, riporta il manifesto. L’osservazione del contesto internazionale, nel quale il muro tra USA e Messico si colloca solo come possibile nuovo ingresso in una nutrita schiera di interventi analoghi, presenti a tutte le latitudini, li ha incoraggiati verso una riflessione alla radice della questione. “Più volte”, scrivono, “abbiamo detto che il muro, non importa se di mattoni o di filo spinato o di catene di polizie nazionali, è una delle forme più storicizzate tra le architetture della vergogna. Un’architettura dove il rapporto tra dimensione politica, espressiva e funzionale si estremizza a favore di un’architettura come strumento politico d’imposizione”.

Estudio 3.14, Prison Wall

Estudio 3.14, Prison Wall

IL POTERE DELLA DIVISIONE

Forse il destino del muro tra USA e Messico è restare uno slogan, una visione, una mossa propagandistica. Forse non emulerà i tredici chilometri delle Peace Lines che, in Irlanda, separa cattolici e protestanti. Forse non riprodurrà l’immenso campo minato che accompagna Berm, il muro del Sahara Occidentale, in Marocco. Certamente non verrà innalzato nel corso di un’estate, come la barriera metallica che da luglio 2015 divide Ungheria e Serbia, allo scopo di sbarrare la strada ai migranti in arrivo dalle rotte del Mediterraneo. In ogni caso, nonostante l’attuale “inconsistenza materica”, questa infrastruttura sta già rivelando tutto il suo drammatico potenziale divisivo.

Valentina Silvestrini

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #36

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Valentina Silvestrini

Valentina Silvestrini

Dal 2016 coordina la sezione architettura di Artribune, piattaforma per la quale scrive da giugno 2012, occupandosi anche della scena culturale fiorentina. È cocuratrice della newsletter "Render". Ha studiato architettura all’Università La Sapienza di Roma, città in cui ha conseguito…

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