La dimensione utopica dell’infrastruttura. Una mostra a Roma

Fino al 14 febbraio, l'Istituto Centrale per la Grafica di Roma ospita “Verso il Mediterraneo. Sezioni del paesaggio da Salerno a Reggio Calabria”. Curata da Emilia Giorgi e Antonio Ottomanelli, la mostra raccoglie opere di Gabriele Basilico, Mario Cresci e Olivo Barbieri e di 11 artisti fotografi italiani contemporanei che hanno mappato il territorio attraversato dall’A3.

L’ESPERIENZA CONTEMPORANEA DELLO SPAZIO
Vista da 39.000 piedi, in una limpida notte autunnale, la relazione fra le cose – le cose molto grandi, come le città – appare netta e leggibile. L’oscurità cancella i rilievi montuosi, i litorali, le foreste e le fluviali, lasciando solo i segni diagrammatici degli spazi colonizzati dagli esseri umani, disegnati nella luce. Da quest’altezza il territorio si presenta come una cartografia di se stessa e delle conurbazioni che la compongono, tracciata nell’oscurità da milioni di luci al sodio. Questa immagine – un arcipelago di centri urbani pulsanti di luce circondato da vasti e oscuri vuoti, non dissimile dalle sperimentali ricomposizioni cartografiche di Asger Jorn e Guy Debord sulla base delle mappe dei quartieri di Parigi – più di qualsiasi altra coglie l’essenza dell’esperienza contemporanea dello spazio: intensa e intensivamente concentrata in pochi luoghi che operano in perfetta sincronia, quasi come gli organi diffusi di un unico corpo, cuciti insieme dall’infrastruttura.

“FRA” LE COSE E I LUOGHI
Il nome stesso lo dice bene; infrastruttura, quello che sta “fra” le cose e i luoghi e che li ricuce.
In questo senso si può dire che la vera immagine dell’urban age sia percepibile soltanto da 39.000 piedi, o attraverso l’occhio di un satellite, ma non dal livello del suolo. L’immagine della nostra epoca potrebbe essere un “monumento discontinuo” a scala (inter)continentale, non meno totalizzante del celebre Monumento Continuo di Superstudio, ma che sostituisce al suo estremo, dirompente rigore estetico una altrettanto dirompente complessità. A questa vastità e complessità, paradossalmente, corrisponde una altrettanto estrema invisibilità, non essendo possibile – se non osservandolo attraverso il finestrino di un aereo, ridotto ad un immenso mare di luci – avere alcuna esperienza della vastità di questo sistema. Essendo l’infrastruttura quello che sta “fra” le cose, è come se essa stessa cessasse di esistere nella realtà quotidiana. Come la materia oscura di cui la grande maggioranza della massa dell’universo è composta, sappiamo che esiste, ma non cosa sia.

Gaia Cambiaggi, Serre Gioia Tauro, Reggio Calabria 2015 - Courtesy l’autore

Gaia Cambiaggi, Serre Gioia Tauro, Reggio Calabria 2015 – Courtesy l’autore

UN’INVISIBILITÀ  PERCETTIVA
In una certa misura questo è intenzionale. Per avere un’idea della misura in cui la vita quotidiana del ventunesimo secolo sia dipendente da una serie di luoghi e strutture a noi totalmente ignote, è sufficiente scorrere la lista di “critical infrastructure” – infrastrutture di vitale importanza per garantire la continuità dell’economia e dell’industria nazionale – stilato dal governo statunitense come precauzione a seguito degli eventi dell’11 settembre 2001 (e successivamente pubblicato da Wikileaks). Comprende impianti logistici ferroviari e stradali, punti di approdo di tronconi intercontinentali di fibre ottiche, dighe e centrali elettriche, porti, raffinerie e ponti; ma anche impianti di produzione di vaccini e medicinali, data centres e stazioni di ricezione di segnali satellitari. In tutto la lista comprende 259 siti dislocati attraverso 63 Paesi. Di nessuna conoscevo l’esistenza. Forse perché nessuno ha particolare interesse a renderla nota; in ogni caso questi luoghi allo stesso tempo banali e mitologici sono afflitti da un’invisibilità non tanto fisica – sono nascosti lì, davanti ai nostri occhi – quanto percettiva.
Non è stato sempre così; ci sono stati momenti – come ai tempi del New Deal di Roosevelt – in cui l’infrastruttura è stata oggetto di mobilitazione collettiva, un ineguagliato sforzo d’ingegno per concepire e realizzare beni e sistemi che elevassero la qualità di vita di un’intera società. Oggi, nonostante avanzamenti tecnologici che rendono possibile ciò che sarebbe stato inconcepibile nell’America di un secolo fa, ci siamo abituati a occuparci collettivamente del tema dell’infrastruttura unicamente in ambito di proteste, scandali, o per lamentarci dello sgretolamento delle strutture ricevute in eredità e che forse non saremmo più capaci di produrre o anche solo immaginare.

Martin Errichiello e Filippo Menichetti, Demolizione controllata di una campata del Viadotto Italia, 2015 - Courtesy gli autori

Martin Errichiello e Filippo Menichetti, Demolizione controllata di una campata del Viadotto Italia, 2015 – Courtesy gli autori

VERSO IL MEDITERRANEO
Questa mostra è importante perché ci ricorda la dimensione utopica dell’infrastruttura. “Freeways”, ha detto una volta David Byrne, “are the cathedrals of our times”. Le autostrade sono le cattedrali dei nostri tempi. Questo è vero non solo perché sono sforzi logistici immensi – quali altri progetti della nostra epoca possiamo paragonare agli epici sforzi dei secoli scorsi per la costruzione delle cattedrali d’Europa se non, ad esempio, i nove Core Network Corridors, le grandi direttrici logistiche e veicolari che integrano ed estendono i primi corridoi transeuropei tracciati per la prima volta quasi un secolo fa, oppure le grandi costellazioni satellitari Navistar o Glonass ancora in ampliamento, da cui dipendiamo per conoscere la nostra posizione? – ma anche perché, come le foto in questa mostra raccontano, allo stesso modo delle cattedrali strutturano le interazioni e producono a loro modo nuove forme di vita quotidiana. Producono nuovi paesaggi.
L’architetto Yona Friedman ha descritto queste direttrici come le arterie d’Europa, che alimentano quegli organi vitali che sono le sue città e permettono all’intero continente di operare come un’unica grande conurbazione, condividendo le sue risorse e le sue infrastrutture pubbliche, e integrando un continente lacerato da secoli di conflitti.
Questa mostra ci invita a riscoprire, senza megalomania ma con rinnovato impulso collettivo, la straordinaria opportunità che le infrastrutture rappresentano in termini del benessere e la qualità di vita di un’intera società, non solo di individui. Quest’anno coincide, fra l’altro, col cinquecentenario del libro Utopia di Thomas Moore: quale occasione migliore per riscoprire la fondamentale dimensione utopica delle infrastrutture del passato, presente e futuro?

Joseph Grima
testo tratto dal catalogo della mostra

Roma // fino al 14 febbraio 2017
Verso il Mediterraneo
a cura di Emilia Giorgio e Antonio Ottomanelli
Catalogo Planar Books
ISTITUTO CENTRALE PER LA GRAFICA
Via della Stamperia 6
06 699801
www.grafica.beniculturali.it

MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/58280/verso-il-mediterraneo/

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