Giorno della Memoria al Museo Novecento di Firenze. Da una tela di Mafai alle pagine di Primo Levi

Il 27 gennaio, giornata dedicata al ricordo delle vittime dell'Olocausto, non si contano gli eventi e le occasioni di riflessione. Tra questi, a Firenze, un progetto voluto da Sergio Risaliti per ribadire l’impegno contro tutti i fascismi e il ruolo dell’arte e della letteratura, tra testimonianza e denuncia.

È stato ricovero per i pellegrini, poi albergo per le giovani donne indigenti e infine, nel secondo dopoguerra, istituto scolastico. Nel 2006 convertito in spazio museale e dal 2014 sede del Museo Novecento, il complesso duecentesco delle ex Leopoldine, in Piazza Santa Maria Novella a Firenze, conserva anche una memoria tragica, legata al periodo buio del secondo conflitto mondiale. Tra il 1943 e il 1944 le truppe tedesche reclusero qui i lavoratori che presero parte allo sciopero del marzo 1944, indetto dal Comitato di Liberazione Nazionale: 338 furono trascinati fino alla stazione centrale e deportati nel campo di concentramento di Mauthausen. Solo 64 sopravvissero, liberati nel ’45 dagli americani.

Museo Novecento, Firenze (ex Leopoldine)

Museo Novecento, Firenze (ex Leopoldine)

RISALITI AVVIA LA SUA DIREZIONE NEL GIORNO DELLA MEMORIA

Partendo da questa pagina drammatica, Sergio Risaliti costruisce un evento in occasione delle celebrazioni per il Giorno della Memoria. Il primo dalla sua nomina a direttore del museo. “Non possiamo dimenticare ciò che è accaduto“, spiega, “soprattutto oggi che intollerabili manifestazioni di rigurgito fascista e aberranti rimozioni emergono nelle nostre società democratiche“. E aggiunge: “Esiste un’arte prima dell’Olocausto e ne esiste una dopo. L’arte, la poesia sono sopravvissute assieme alla memoria. Il silenzio, cui faceva riferimento il grande filosofo Adorno, ha ‘condannato’ gli artisti a dire l’orrore”. Una consapevolezza che illumina la storia, nutrendone il racconto e l’interpretazione, mentre il passato si compenetra al presente in un flusso continuo. Da qui nasce l’idea di una riflessione condotta tra arte e politica, vicende biografiche e narrazioni collettive, radicandosi fortemente nella specificità del luogo.

Roma, 1935, Antonietta e Mario Mafai nello studio di piazza Indipendenza

Roma, 1935, Antonietta e Mario Mafai nello studio di piazza Indipendenza

MARIO MAFAI E ALBERTO DELLA RAGIONE. ARTE E ANTIFASCISMO

La mattina del 27 gennaio, nell’altana del museo, la conferenza “Mario Mafai e Antonietta Raphael negli anni del regime”, organizzata dall’Associazione Mus.e e curata da Elisabetta Stumpo, ripercorre la vita dei coniugi Mafai, protagonisti di rilievo della scena artistica del primo Novecento, fondatori nel 1927 della celebre Scuola Romana. Due vittime, anche loro, della dittatura nazifascista e della persecuzione contro gli ebrei: la casa atelier di via Cavour, a Roma, venne distrutta, e in seguito alla proclamazione delle oscene leggi razziali la coppia fu costretta a nascondersi.
A fare da controcanto, dando sostanza visiva alle parole, sarà una tela di Mario Mafai del 1940, tratta dalla serie “Fantasie”, ciclo pittorico in cui lo spirito del tempo, la follia dello scontro bellico, il sentimento dell’oppressione e della paura si traducono nei grovigli di corpi, negli scorci intitolati all’inquietudine o alla desolazione, nelle maschere grottesche, nelle scene di persecuzione o di prigionia, con riferimenti che vanno da Goya fino a Grosz. L’ombra della guerra diventa trama pittorica, scrittura di forme e di segni, apparizione feroce e militanza poetica, senza che l’artista arrivi ad affibbiarle una connotazione ideologica o smaccatamente politica:”Quello che faccio non è per compiacere qualcuno ma soltanto necessità e soddisfazione di me stesso“. Motivo per cui rifiutò che le sue “Fantasie” venissero pubblicate insieme alle “Lettere della Resistenza” di Sartre.
Il dipinto esposto in via straordinaria per il Giorno della Memoria fa parte della collezione di Alberto della Ragione, ingegnere, mecenate e raffinato collezionista, che alla fine degli Anni Venti iniziò ad acquistare opere dell’Ottocento. Solo nel 1931, dopo una visita alla Quadriennale di Roma, arrivò la folgorazione per il contemporaneo. La sua collezione da allora si nutrì soprattutto del lavoro sperimentale degli artisti più giovani, spesso avversati dal regime e trascurati dal mercato: considerata già negli Anni Quaranta una delle più grandi raccolte d’arte contemporanea italiane, venne donata nel 1970 al Comune di Firenze ed è oggi conservata presso il Museo Novecento.

Pimo Levi, Se questo è un uomo, De Silva, Biblioteca Leone Ginzburg, 1947

Pimo Levi, Se questo è un uomo, De Silva, Biblioteca Leone Ginzburg, 1947

SE QUESTO È UN UOMO. UNA PERFORMANCE AL MUSEO

Si intitola “Il viaggio” la performance che alle 15.30 coinvolgerà gli allievi del laboratorio teatrale La Stanza dell’Attore – tutti studenti del liceo Michelangelo – diretto dal regista teatrale Giovanni Micoli. I ragazzi, seduti sotto il loggiato – lì dove una targa ricorda il complesso delle ex Leopoldine come luogo della memoria di Firenze – leggeranno ognuno un capitolo del capolavoro di Primo Levi “Se questo è un uomo”. Tutti contemporaneamente, tutti con una piccola stella di David appuntata sul petto, in un racconto polifonico decostruito per frammenti e per evocazioni. Sulla cancellata esterna un collage di foto d’archivio mostrerà decine di prigionieri nella classica uniforme a righe: nessun volto, solo masse di uomini ritti al di là delle sbarre, ad attendere il proprio destino.

Campo di concentramento di Auschwitz

Campo di concentramento di Auschwitz

I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta; nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un vagone piccolo. Ecco dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo così spesso sentito narrare. Proprio così, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo. Questa volta dentro siamo noi”. Così raccontava Primo Levi nel capitolo che apriva il suo libro-documento: un viaggio incontro a un buco nero, in direzione di uno di quei luoghi che un altro prigioniero, l’artista Aldo Carpi – deportato a Mautahusen-Gusen e sopravvissuto all’orrore – aveva definito la “porta dell’inferno”. Rammentare i contorni di quel precipizio, e farne ancora parola, immagine, coscienza, sguardo singolare che si somma a un pensiero plurale, è qualcosa che riguarda da vicino il senso della storia e la sua declinazione quotidiana.

– Helga Marsala

http://www.museonovecento.it/

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, giornalista, editorialista culturale e curatrice. Ha innsegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a…

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