Violent Beauty. La sublime violenza della contemporaneità, II

Seconda puntata per il saggio di Marco Ragonese sul tema del rapporto tra arte e violenza. Questa volta parliamo dei bambini impiccati di Cattelan, delle performance di Silvia Giambrone ma anche del design di Philippe Starck. Aspettando il concretizzarsi di nuove forme e nuove visioni.

Alla fine del XX secolo, finita l’inerzia che il genere pulp aveva ritrovato al cinema e in letteratura, la violenza si fa spettacolare e provocatoria, al limite dell’osceno. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che spinge nel 2004 un signore milanese a prendere una scala per smontare Untitled di Maurizio Cattelan. L’installazione consiste in tre manichini, raffiguranti dei bambini, impiccati a un albero di piazza XXIV Maggio: l’oscenità della morte violenta esce dalle gallerie e dai vernissage per scontrarsi con un pubblico ampio, impreparato e non disposto a tollerare certe provocazioni. Infatti lo stesso soggetto, senza che si levassero scudi contro la scelta del fotografo, era stato affrontato da Andres Serrano nella sua foto Interpretation of Dreams (Daniel) in cui un bimbo impiccato allunga vanamente un braccio in cerca di aiuto. E se per i circhi che utilizzano animali c’è sempre un picchetto pronto a protestare, Damien Hirst nei suoi lavori mette lo spettatore davanti al fatto compiuto, ovvero che l’animale – mucca, vitello, squalo che sia – è stato violentemente tagliato a metà e non c’è più nulla da protestare. Proprio come quando si cammina lungo un mercato storico a Palermo dove le teste dei bovini o gli agnelli sezionati a metà rappresentano l’insegna del negozio e la garanzia di genuinità del prodotto venduto. La violenza si solidifica nella serie Fucking Hell di Jake e Dinos Chapman, diorama affollati da miniature di soldati nazisti e scheletri che crocifiggono e impiccano uomini nudi in un paesaggio da inferno dantesco. Uno scenario brullo, grigio, in cui la condizione umana appare in tutta la sua fragilità e, al tempo stesso, efferatezza e crudeltà. In un parallelo contemporaneo con i dannati della Cappella di San Brizio di Luca Signorelli in cui i grovigli di corpi e la brutalità dei demoni sembrano anticipare le scelte artistiche del duo inglese.

Silvia Giambrone, Eroina (molecola rosa), 2012

Silvia Giambrone, Eroina (molecola rosa), 2012

Negli ultimi anni la profusione di immagini disponibili ha reso pornografica qualsiasi immagine, anche la più cruenta, che si può analizzare fino all’ultimo pixel. L’azione artistica, quindi, sembra avere abbandonato la violenza manifesta, esibita, per veicolare un messaggio più raffinato e subdolo, fascinoso e angosciante al tempo stesso. Un esempio è Eroina (2012) di Silvia Giambrone, dove un “centrino”, realizzato all’uncinetto, rappresenta null’altro che una molecola di eroina. L’opera genera un cortocircuito tra l’empatia che l’oggetto stabilisce con l’osservatore – riportando alla mente immagini legate all’infanzia di ognuno, alle case delle vecchie zie o delle nonne – e il disagio che il pensiero degli effetti nefasti dello stupefacente produce nelle persone. Una sorta di casa di Hansel e Gretel in cui la fascinazione estetica nasconde il male, senza moralismi, ricordando che la nonna cattiva pronta a mangiarci è dentro il ricamo e, ovviamente, dentro la mente di ognuno. Il fascino dell’ambiguità è utilizzato anche in 8 novembre 2011 (2011) in cui delle lame rotanti, immerse nel suono di field recordings realizzati all’orto botanico di Palermo, evocano fiori giocosi ma impossibili da toccare se non a rischio di ferirsi.

Philippe Starck, Gun Lamp, 2005

Philippe Starck, Gun Lamp, 2005

Incapace di elaborare una raffinata operazione di rimandi e associazioni come quella appena descritta, il mondo del design usa l’oggetto “violento” così come è, estetizzandolo senza alcuna elaborazione. Principe di questo approccio è Philippe Starck con le sue Gun Lamp per Flos, in cui il supporto del portalampada è rappresentato da un kalashnikov o da una pistola automatica, entrambi color oro. E guardando le foto postate su Twitter dai giovani narcos che ritraggono i propri fucili fatti di oro zecchino viene il dubbio su chi sia stato fonte d’ispirazione per l’altro. Nel divano Brick del gruppo Kibisi i cuscini, più che ricordare i mattoni, fanno pensare a una trincea fatta da sacchi di sabbia da dove sparare con il proprio telecomando magari alla luce delle armi-lampade di Starck o sorseggiando la bibita energetica austriaca Bomba! che, didascalicamente, è contenuta in un flacone a forma di bomba a mano. Operazioni, soprattutto la prima, che sembrano volere esorcizzare la violenza prodotta dagli oggetti utilizzati mediante l’assuefazione e l’abitudine a possederli, senza creare disagio o domande.

Kibisi, Brick, 2010

Kibisi, Brick, 2010

La velocità dei dati e dell’informazione, aumentata dalla condivisione dei social network, pone nuove questioni, e la violenza non interessa più necessariamente il corpo di ognuno quanto, piuttosto, l’identità informatica. Violare una password, creare falsi avatar diventa la nuova frontiera, asettica e senza spargimenti di sangue, della violenza contemporanea. Rimaniamo in attesa di ulteriori novità.

Marco Ragonese

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