La grande fotografia di paesaggio. Intervista con Giovanni Chiaramonte

Parte una nuova inchiesta di Artribune, stavolta dedicata alla fotografia di paesaggio. Con tante interviste ai protagonisti del Viaggio in Italia ideato da Luigi Ghirri nel 1984. Si comincia con Giovanni Chiaramonte.

Viaggio in Italia è una ricognizione sulla fotografia italiana di paesaggio che prende il titolo dal volume del 1984 ideato e curato da Luigi Ghirri insieme a Gianni Leone ed Enzo Velati. Iniziamo la serie di interviste ad alcuni protagonisti di quella storia con Giovanni Chiaramonte (classe 1948), che a partire dagli Anni Settanta è stato particolarmente vicino al fotografo emiliano e che con lui ha condiviso pensieri sulla fotografia e avventure culturali.
Trascorrere qualche ora con Chiaramonte è stimolante e impegnativo. È un uomo di grandi letture, di profonde riflessioni filosofiche sulla fotografia, sul cinema, sull’immagine, sul loro significato più profondo. Laureato in Filosofia all’Università Cattolica di Milano con Gianfranco Bettetini, sin da ragazzo si interessa al cinema. La sua formazione avviene nella canonica dello zio parroco a Gela, in Sicilia, dove si reca ogni estate con la famiglia, originaria di lì. La sua è una posizione abbastanza singolare nel mondo della fotografia, spesso scomoda, controcorrente.

Quando decidi di dedicarti alla fotografia?
Presto, nel 1970. Nel 1967 mi ero iscritto a Giurisprudenza alla Cattolica, ma ho compreso presto che non faceva per me. L’università sta vivendo un momento di grande crisi e anche io ne subisco le conseguenze. Capisco che mi interessa studiare, fare ricerca, così passo a Filosofia. Nel frattempo sono diventato critico cinematografico del Centro San Fedele, dove incontro Giuseppe Panza di Biumo, con cui ho modo di parlare.

Il passaggio dall’immagine in movimento a quella fissa come avviene?
Da ragazzo avevo trovato, nella biblioteca di mio zio, Americana di Vittorini, che contiene le immagini della fotografia americana degli esordi, quelle dei vari Matthew Brady e Timothy O’Sullivan. Sento che quella è la mia strada, con l’aiuto di mio padre compro due Leica e nell’estate del 1970 faccio un viaggio nella Sicilia sudorientale, durante il quale scatto parecchie foto. A distanza di molti anni ho ritrovato i negativi di quelle immagini, che sono la testimonianza di un mondo scomparso e del mio lavoro giovanile. Le ho pubblicate recentemente con Postcart nel volume Ultima Sicilia.

Giovanni Chiaramonte, Nascosto 59. Caravella, Gibellina 1989

Giovanni Chiaramonte, Nascosto 59. Caravella, Gibellina 1989

Sin dall’inizio del tuo percorso, il rapporto con la Sicilia è determinante. I temi delle feste religiose e dei rapporti con la morte in quella terra sono particolarmente intensi.
Anche la modalità della lingua italiana legata al dialetto siciliano ha un indice di realismo straordinario. Le parole in quella lingua, quella di Verga e di Bufalino, riescono a evocare perfettamente la dimensione visiva. Quella terra, infatti, ha dato un’importante scuola di fotografi: Ferdinando Scianna, Enzo Sellerio, Letizia Battaglia, Peppino Leone. Non credo sia un caso che Richard Avedon, uno dei fotografi che più amo, apra la sua Autobiography con una foto di un uomo sui trampoli il giorno della festa di Santa Rosalia a Palermo. Nello stesso libro, inoltre, ci sono parecchie immagini scattate nella Cripta dei Cappuccini.

Torniamo al tuo viaggio.
Ogni estate con il treno tornavamo a casa. Era un viaggio lunghissimo, durava un giorno e mezzo, l’ultima parte era su treni con la locomotiva. In quegli anni, tra i Cinquanta e la metà dei Sessanta, era una grande fortuna vivere a Milano, una città che stava costruendosi una nuova immagine. La Sicilia era un altro mondo, segnato ancora dalla civiltà contadina, preindustriale. Il polo petrolchimico di Gela sarebbe nato solo nel 1963. La dimensione popolana siciliana era straordinaria. Ricordo che parecchie famiglie di contadini analfabeti possedevano il grammofono per ascoltare il melodramma.

Nell’altra metà della tua esistenza, al Beccaria, il liceo classico di Milano che frequentavi, avevi Maria Luisa Gengaro per Storia dell’arte.
Ci parlava di ermeneutica della forma. Ci ha insegnato a leggere gli alfabeti di pietra che sono le città e i libri che sono gli affreschi. La Gengaro proveniva dalla Normale di Pisa, dalla quale è uscito anche Arturo Carlo Quintavalle, con il quale collaboro da molti anni. Dietro la forma c’è sempre un pensiero, che bisogna studiare per conoscere.

Giovanni Chiaramonte, Nascosto 47. Scacchiera, Ancona 1985

Giovanni Chiaramonte, Nascosto 47. Scacchiera, Ancona 1985

Negli anni dell’università ti occupi della realizzazione di audiovisivi per la neonata Regione Lombardia.
Sì, per sbarcare il lunario. Ero assetato di studio. Compravo parecchi libri e leggevo. Inciampo così in due libri per me fondamentali. Il primo è Message from the Interior di Walker Evans, un libro in cui la componente spirituale è preponderante. In America c’erano state alcune esperienze evangeliche straordinarie, con le quali era entrato in contatto don Luigi Sturzo, in rapporti con la mia famiglia, negli anni dell’esilio americano. Negli Stati Uniti c’erano teologi che erano stati operativi nei movimenti sindacali degli Anni Venti e Trenta, come Reinhold Niebuhr. Gli stessi teologi nel cui metodo si imbatte Robert Adams quando va a studiare in California. È un realismo teologico dedicato all’opera dell’umano nella storia e quindi nel sociale, in una dimensione spirituale: un’esperienza della realtà sostanzialmente drammatica. Non è casuale che il secondo libro fondamentale in cui mi imbatto sia Mirrors Messages Manifestation di Minor White.

La fede, la mistica, la Bibbia entrano spesso nei tuoi discorsi.
Il discorso biblico è stato per me imprescindibile anche per comprendere la fotografia del Novecento. La natura dell’umano, secondo la Bibbia, è essere immagine e somiglianza. Nel 1971 in Unione Sovietica e nel 1973 nel resto del mondo viene distribuito Andrej Rublëv (1966) di Andrej Tarkovskij: per me è stata una scoperta emozionante. Il cammino dell’umano è un cammino di bellezza. Fotografia e cinema hanno come statuto ontologico l’istante, che rivela il destino e può rivelare una profondità infinita. Già allora avevo intuito che il segno dell’infinito sull’obiettivo è esattamente questo. Se fai una vera fotografia, non sei legato soltanto all’apparenza visibile. All’università ho studiato il pensiero di Galileo Galilei. Mi sono appassionato, inoltre, al pensiero di Martin Heidegger. Il filosofo tedesco scrive in Sentieri interrotti che l’epoca moderna è l’epoca del mondo risolto in immagine e che per immagine dobbiamo considerare anche tutto il sistema scientifico produttivo. Sta evidentemente parlando della fotografia e del cinema. Il pennello, la matita non hanno la trascrizione prospettica dello spazio, la trascrizione istantanea del tempo. La fotocamera me l’ha data l’umanesimo, attraverso Galileo, la chimica, la Cabala.

Parli spesso di San Giovanni della Croce, che nei suoi scritti ha evidenziato il concetto di vuoto, in senso spirituale.
Per fare una foto devi essere vuoto, devi lasciare ogni preoccupazione. Inoltre è fondamentale il rapporto ininterrotto con la luce dell’arte occidentale.

Giovanni Chiaramonte, Nascosto 73. Museo, Geraci Siculo 1997

Giovanni Chiaramonte, Nascosto 73. Museo, Geraci Siculo 1997

Nel 1973 conosci Ghirri…
Al Diaframma di Lanfranco Colombo vedo un cofanetto con le sue foto di Colazione sull’erba. Ne rimango folgorato, lo rintraccio e due settimane dopo vado da lui a Modena, dove viene a prendermi alla stazione con Roberto Salbitani. Sin da subito abbiamo avuto un rapporto molto profondo. Era una persona intelligente, colta, sensibile, umile. Aveva scelto di crescere come uomo, attraverso la fotografia. Riteneva che l’esperienza di una vita più profonda e compiuta dovesse essere partecipata dagli altri. Ciò che entrava nelle sue foto nasceva veramente in un momento di libertà, di liberazione dello sguardo.

Ghirri non era un uomo di fede?
Era religiosissimo ma non credeva alla resurrezione. Aveva un profondo fondamento evangelico. Era legato al P.C.I., ma non certo all’astuzia togliattiana o all’apparato ideologico stalinista. Il suo, nei confronti delle realtà, era un approccio letterario, fenomenologico.

In quegli Anni Settanta che avete vissuto così intensamente, vi siete spesso chiesti come la fotografia possa parlare della realtà?
Un importante punto di riferimento sono state le Verifiche di Mulas. Tutti i lavori che Ghirri ha fatto dal 1974 al 1978 sono state delle verifiche. In quegli anni io smetto di fotografare e mi dedico totalmente allo studio. Quello è stato per entrambi un periodo decisivo: abbiamo cercato di capire per vie diverse come la fotografia potesse ancora parlare del mondo. Nel 1978 capiamo entrambi che il mondo è immagine e che quindi fare fotografia ne rivela la realtà. Abbiamo così iniziato a fotografare l’esterno. Quando questo problema fu teoreticamente risolto da me e praticamente da lui, con tutti i lavori che aveva fatto in quegli anni, quelli precedenti a Kodachrome, fondiamo la cooperativa editoriale Punto e Virgola.

Nel 1980 inizi a lavorare al libro Giardini e paesaggi. Viaggi dal confine con la Svizzera sul Lago Maggiore fino alla Sicilia.
Il volume, pubblicato nel marzo del 1983, in occasione della mostra da Marconi, si apre con il lavoro in bianco e nero, di formato quadrato, su un giardino che la mia famiglia possedeva a Gela. Dal 1978 al 1981 tutti gli anni andiamo con Ghirri ad Arles e ci rendiamo conto che molti della nostra generazione stanno lavorando sul tema del luogo. Per noi il paesaggio non era rappresentato solo dall’esterno ma anche dall’interno, che abbiamo inserito con assoluta e totale libertà nelle nostre sequenze narrative. L’interno è anche il luogo dove metti delle immagini, dove noi rivelavamo il mondo come immagine, appunto. L’esterno del paesaggio è generato dall’interno della casa, dalle tracce che l’essere umano lascia dentro la stanza.

Giovanni Chiaramonte, Nascosto 69. Senza titolo, Milano 1999

Giovanni Chiaramonte, Nascosto 69. Senza titolo, Milano 1999

Nel 1981 curi la mostra Italy through the camera’s eye con la Fondazione Agnelli, che viene presentata in primis a Chicago.
Mi cercarono loro, ero l’unico in Italia a dirigere una collana editoriale di fotografia. In maniera metodica mi occupavo da anni dell’origine della fotografia. Senza l’Italia non ci sarebbe stata la fotografia: da Dante a Piero della Francesca a Galilei. La fotografia è l’esito di una visione che costruisce l’immagine in una maniera scientifica.

Nel 1983 pubblichi con Jaca Book un libro molto importante, Immagini della fotografia europea contemporanea.
Ho messo insieme personalità significative di tutta Europa. È la prima volta che si indica un gruppo di fotografia italiana di paesaggio: Ventura, Jodice, Barbieri, Cresci, Ghirri, Guidi, Rozzo, Leone, Castella, Basilico e io stesso. Nel frattempo Luigi prepara Viaggio in Italia per la Pinacoteca di Bari (1984) e il volume pubblicato da Il quadrante.

Il tuo contributo è stato determinante?
Credo di sì. La struttura narrativa è un racconto di Ghirri, portatore di identità. Sceglieva lui le foto e le ordinava, secondo sequenze narrative. Ma in quel periodo il nostro dialogo era stretto. Il mio libro è un’antologica, un’altra cosa. La fortuna editoriale di Viaggio in Italia deriva dal fatto che, essendo un viaggio, comunica un’esperienza che riguarda chiunque. Il mio libro non ha questa valenza di destino. Queste fotografie dimostrano la genialità di Luigi, uno dei pochi che aveva davvero capito Benjamin, in particolare il tema della genealogia. La fotografia è una citazione, noi siamo davanti al mondo come ce l’ha dato la storia, la tradizione. Il filosofo e scrittore tedesco afferma che la citazione può salvare la tradizione. E Ghirri ha fatto un imprescindibile lavoro di citazione.

Giovanni Chiaramonte, Nascosto 02. Scena italiana, Riccione 1980

Giovanni Chiaramonte, Nascosto 02. Scena italiana, Riccione 1980

UNA VITA INSIEME AI LIBRI

Il libro è una presenza fondamentale nella vita di Giovanni Chiaramonte, lettore infaticabile, studioso, raccoglitore, curatore ed editore.
Sino alla metà degli Anni Sessanta, ogni estate il futuro fotografo va con la famiglia a Gela. Passa le sue ore nella canonica dello zio prete, fratello di suo padre. Lo zio è un uomo particolare, colto, legato a don Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare, e alla chiesa ortodossa d’Oriente, quella in esilio a Parigi, ma anche quella rimasta in Unione Sovietica. “Ricordo un libro sull’ortodossia che aveva in copertina un’immagine dell’Orsa maggiore, immagine che io utilizzo quando firmo le fotografie e i miei libri”. Ma nella libreria dello zio ci sono anche libri di immagini come Un paese di Paul Strand o Americana, l’antologia di scrittori curata da Elio Vittorini nel 1941, censurata dal fascismo e poi ripubblicata a guerra finita, in cui sono state anche edite le immagini dei pionieri della fotografia statunitense.
Nel 1978 fonda con Luigi Ghirri la cooperativa editoriale Punto e Virgola, che pubblica fra gli altri Kodachrome di Ghirri, Fotografia e inconscio tecnologico di Franco Vaccari, 70 anni di fotografia in Italia di Italo Zannier. Nel 1981 la casa editrice ha tante idee ma scarsissime risorse, Luigi e Giovanni sono immersi nei debiti, così cedono il marchio a Jaca Book, una casa editrice milanese vicina al movimento Comunione e Liberazione. Ghirri lascia direzione artistica per conflitti di natura ideologica, politica. A lui subentra Chiaramonte, che dirige per la collana di fotografia. Alcune mostre, accompagnate dai libri Jaca Book, vengono portate al neonato Meeting di C.L. La faccenda non manca di suscitare polemiche, delle quali Chiaramonte è battagliero protagonista. Con Jaca Book rimane sino al 1989.
Nel 1990 diviene direttore della collana di fotografia di Federico Motta Editore: anche lì la vita non è facile. I contrasti sono quasi sempre con la parte commerciale, ma ne nascono volumi importanti. Nel 1993 il rapporto con la casa editrice milanese termina e Chiaramonte viene chiamato a dirigere la collana fotografica della torinese S.E.I., la Società Editrice Internazionale. Nel frattempo, nel 1993 è tra i fondatori della società di servizi editoriali Ultreya. Soci di Ultreya sono le Edizioni della Meridiana, con cui il fotografo collabora tra il 1998 e il 2005 pubblicando i diari e le polaroid del regista Andrej Tarkovskij, sino a quel momento completamente sconosciuti nel nostro Paese. Il regista russo è stato una scoperta importante per Chiaramonte, che svela prima di tutto a se stesso nuove prospettive, nuove angolazioni culturali.
Per Chiaramonte il libro è fonte inesauribile di riflessione, occupa una posizione centrale nel suo cammino intellettuale e di fotografo. A chiusura del suo Mirrors Messages Manifestation, Minor White inserisce un elenco dei libri più significativi della sua vita: “Tre su quattro erano gli stessi libri che leggevo io”, confessa Chiaramonte. La fotografia è un’opera su carta e sulla carta di un libro si può avere quasi un facsimile dell’opera fotografica. Del resto, quando nel 1970 inizia a fotografare, Chiaramonte lo fa con una visione narrativa: “Mi interessa cercare fino in fondo la forza di un’immagine, sapendo tuttavia che l’immagine fa parte di un intero più grande, di una totalità”. E quindi la poesia, che occupa uno spazio importante nella sua vita, con il rapporto di amicizia con Umberto Fiori, i cui versi hanno accompagnato più di un libro di Chiaramonte, come nel recente Jerusalem, con quattordici “descritture” del poeta: un testo parallelo, non critico, che testimonia le affinità elettive tra i due.

Angela Madesani

 Articolo pubblicato su Artribune Magazine #40

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Angela Madesani

Angela Madesani

Storica dell’arte e curatrice indipendente, è autrice, fra le altre cose, del volume “Le icone fluttuanti. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia”, di “Storia della fotografia” per i tipi di Bruno Mondadori e di “Le intelligenze dell’arte”…

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