Biennale di Venezia. L’editoriale di Ludovico Pratesi

A poche ore di apertura della Biennale d’Arte curata da Christine Macel, Ludovico Pratesi mette in luce i punti di forza e i nodi più deboli della kermesse veneziana. Premiando il Padiglione Italia di Cecilia Alemani.

Non succedeva da anni, o forse non è mai accaduto che la migliore opera d’arte presente in Biennale fosse stata realizzata da un italiano. Ma la Biennale 2017 Viva Arte Viva, curata da Christine Macel, ha fatto accadere il miracolo: l’opera Imitazione di Cristo (2017) di Roberto Cuoghi per Il mondo magico, magnifico Padiglione Italia curato da Cecilia Alemani, è il capolavoro della 57esima edizione.
Un’installazione complessa e sfaccettata, che unisce mitologia e religione, storia dell’arte e scienza, magia e simbolismo, in un processo spiazzante e sinistro che “trasforma il padiglione in una fabbrica di effigi che secoli di storia dell’arte occidentale ci hanno insegnato a temere e riverire, attribuendovi poteri magici: tra variazioni, interpretazioni e ricostruzioni a volte incongruenti”, scrive la Alemani in catalogo. Un’opera le cui implicazioni culturali, sociali e antropologiche crescono nel tempo, toccando questioni relative alla differenza tra volto e icona, corpo e reliquia, scienza ed etica, per arrivare perfino alla delicata questione del sesso di Cristo, mirabilmente descritta nel saggio di Leo Steinberg The sexuality of Christ in Renaissance Art and in Modern Oblivion, pubblicato nel 1983. All’interno del migliore padiglione che l’Italia abbia mai presentato a Venezia, grazie all’impegno della Direzione per l’Arte Contemporanea che ha accolto e fatto sue le indicazioni di una curatrice attenta e consapevole, splende l’ombroso e cupo pensiero di un artista capace di rivisitare il passato nel presente, con uno sguardo colto e sintetico come solo un italiano può fare (i riferimenti al Cristo scarnificato di Matthias Grünewald sono evidenti, insieme ai Sacchi e alle Plastiche di Alberto Burri da una parte e alle opere concettuali di Piero Manzoni dall’altra).

Padiglione Germania - foto di Irene Fanizza

Padiglione Germania – foto di Irene Fanizza

LA GERMANIA LEONE D’ORO

Ai Giardini le alte grate di metallo vengono attraversate dai latrati dei due dobermann che si aggirano circospetti per proteggere (o rivelare?) uno spazio che è al contempo padiglione e carcere, panopticon e tempio , dispositivo e rituale concepito da Anne Imhof per il Padiglione Germania, curato da Suzanne Pfeiffer, dove le questioni affrontate da Cuoghi si ribaltano su un presente precario, dove le generazioni digitali e post-gender si sforzano di sopravvivere alla ricerca di possibili punti di riferimento. Corpi emaciati e indefiniti si muovono silenziosi e furtivi come animali braccati, fiutano l’aria chiusi in gabbie di cristallo, si contorcono in movimenti e pose che simulano atti sessuali senza sesso, emettono suoni disturbanti e proiettano il visitatore in una dimensione di carceriere-voyeur.

57. Biennale di Venezia, Giardini, Olafur Eliasson, ph. Irene Fanizza

57. Biennale di Venezia, Giardini, Olafur Eliasson, ph. Irene Fanizza

MOSTRA INTERNAZIONALE VS PADIGLIONI

I picchi di Viva Arte Viva sono quindi i più distanti dal messaggio fintamente consolante di questa Biennale, dove i padiglioni nazionali vincono sulla mostra internazionale, che appare al di sotto delle aspettative, soprattutto all’Arsenale. Tra le arcate delle Corderie, le divisioni tematiche dei sette trans-padiglioni appaiono troppo spesso didascaliche e riduttive, dove le opere appaiono costrette in categorizzazioni arbitrarie, sottolineate da un allestimento fin troppo pulito e omologante, più adatti alle sale di un museo che a una mostra internazionale.
Nel Padiglione Centrale ai Giardini la situazione migliora, grazie alla presenza di artisti affermati (Olafur Eliasson, Kiki Smith, Franz West e soprattutto John Latham), mentre nella sezione Gioie e paure (la più libera da schemi aprioristici e per questo la migliore della mostra) si possono scoprire artisti poco noti come Hajra Waheed o Tibor Hajas. Così questa fuga da un mondo “pieno di conflitti”, dove “l’arte è l’ultimo territorio per la riflessione, l’espressione individuale, la libertà e per le questioni fondamentali”, dichiara la Macel, ha prodotto una mostra che l’assenza di complessità rende piatta e a tratti perfino monotona e ripetitiva.
La salvano i Padiglioni, con molte partecipazioni nazionali di indubbio interesse e qualità,  come My Horizon, l’itinerario attraverso un territorio sospeso tra realtà e fiction di Tracey Moffatt al Padiglione Australia, le ironiche (ma già viste) One Minute Sculpture di Erwin Wurm per l’Austria, l’inquietante e radicale ambiente carcerario della talentuosa brasiliana Cynthia Marcelle, le rovine del padiglione canadese di Geoffrey Farmer, l’installazione sonora di James Richards nella Chiesa di Santa Maria Ausiliatrice, le sculture neominimaliste di José Pedro Croft nel suggestivo Padiglione Portogallo alla Villa Heriot, il sorprendente video The Mountain di Moataz Nasr al Padiglione Egitto, mentre rimane indimenticabile la sofisticata retrospettiva di Greta Bratescu per la Romania.
La complessità delle immagini nel rapporto con il reale è un tema presente, in varie accezioni, in alcuni padiglioni da non perdere, come Laboratory of Dilemmas di George Drivas per la Grecia, Little Review di Sharon Lockart per la Polonia, l’armonioso binomio tra Candice Breitz e Mohau Modisakeng per il Sudafrica e il raffinato Women of Venice di Teresa Hubbard, Alexander Birchler e Carol Bove al padiglione svizzero.

Philip Guston, Pantheon, 1973. Olio su tavola, 114 × 122 cm. Collezione privata. © 2016 The Estate of Philip Guston / Hauser & Wirth

Philip Guston, Pantheon, 1973. Olio su tavola, 114 × 122 cm. Collezione privata. © 2016 The Estate of Philip Guston / Hauser & Wirth

LE ALTRE RASSEGNE

Possiamo aggiungere alcuni eventi collaterali da scoprire in spazi segreti della città, oltre alle mostre di Pistoletto e Boetti a San Giorgio, la personale di Anselmo alla Fondazione Querini Stampalia, l’esemplare antologica di Philip Guston alle Gallerie dell’Accademia e The Boat is Leaking. The Capitan lied alla Fondazione Prada.
Partiamo dagli interventi minimali ma significativi di Marzia Migliora a Ca’ Rezzonico, che rileggono la storia della città e del museo in maniera colta e sensibile, per proseguire con il video Gente di Palermo di Douglas Gordon, girato nelle Catacombe dei Cappuccini a Palermo e mirabilmente allestito nelle prigioni di Palazzo Ducale, e con Leviathan, il progetto dell’artista Shezad Dawood, curato da Alfredo Cramerotti in due location d’eccezione, la Palazzina Canonica e la Fabbrica Fortuny.
Infine, a proposito di luoghi inaccessibili che la Biennale permette di scoprire, si segnala Solo, la personale di Thomas Braida curata da Caroline Corbetta nelle sale del piano nobile di Palazzo Nani Bernardo: un esempio perfetto di camouflage tra gli arredi del palazzo e le opere dell’artista. Da non perdere.

Ludovico Pratesi

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Ludovico Pratesi

Ludovico Pratesi

Curatore e critico d'arte. Dal 2001 al 2017 è stato Direttore artistico del Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro Direttore della Fondazione Guastalla per l'arte contemporanea. Direttore artistico dell’associazione Giovani Collezionisti. Professore di Didattica dell’arte all’Università IULM di Milano Direttore…

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