Curatela ed eleganza. Intervista a Francesco Garutti

Passando attraverso Bruno Latour, Helke Bayrle, Thomas Schütte, il curatore delinea forme e premesse di un linguaggio che sottenderà la prima mostra istituzionale italiana del duo belga Jos de Gruyter e Harald Thys: “Elegantia”.

Il Palazzo dell’Arte de La Triennale di Milano sta per inaugurare la prima mostra istituzionale del duo belga Jos de Gruyter (1965) e Harald Thys (1966), Elegantia un esperimento sull’idea stessa del disporre nello spazio e sul suo fallimento: modello possibile di una mostra senza autore, bidimensionale e deformata come lo spazio della nostra mente. Lungo il percorso, sculture bianche che abiteranno il primo piano non saranno solo corpi in marmo dalle forme auree, ma pesanti figure metalliche bidimensionali (White Elements, 2012-2016) dai volti perturbanti. In mostra i ritratti di Les Enigmes de Saarlouis (2013); alcune sculture in terra cruda provenienti da un disumano e inquietante laboratorio di ceramica (Der Schlamm von Braanst, 2008); piccoli esperimenti sulla forma umana (White Elements, prototipos, 2016) e una lunga serie di acquarelli dai soggetti ambigui (Fine Arts, 2015). Infine un’alta fontana da interni, dalle sembianze androidi, dal titolo De Drie Wijsneuzen (2013) concluderà il percorso attraverso una mostra enigmaticamente classica. Abbiamo parlato del progetto con il curatore, Francesco Garutti.

Qual è stata la mostra che ha modificato il tuo punto di vista sull’arte contemporanea e perché?
Ne cito rapidamente alcune per me decisive: Von Hier Aus, a cura di Kasper König, con la radicale e sofisticata architettura di Hermann Czech (Düsseldorf, 1984) – la mostra immaginata come una città, lo studio dell’artista come modello di spazio espositivo; Post Human di Jeffrey Deitch (1992) per il rivoluzionario visual essay sul catalogo disegnato da Dan Friedman – l’arte traguarda ed esplora presente e futuro del mondo; Chambres d’Amis di Jan Hoet (Gent, 1984) – la mostra come un “prudente e lucido flirt” tra città e museo, angoli privati e spazio pubblico –, e poi Quali cose siamo di Mendini alla Triennale di Milano (2010) e il suo sguardo antropologico sulle opere, gli oggetti, le immagini.

A quale, però, sei legato in maniera particolare?
Forse la più importante per me credo sia stata Making Things Public – Atmosphere of Democracy (ZKM, 2005) a cura di un filosofo eclettico come Bruno Latour. Ho aspettato tre lunghi giorni a Karlsruhe prima che aprisse per vederla. Né arte né architettura. Tutte le discipline allestite su grandi tavoli nel cuore del museo per cercare di esplorare e rivelare ciò che spesso non appare subito come visibile nel mondo delle cose e delle immagini tra le quali viviamo: la Politica. L’arte come strumento – sullo stesso piano della fisica e della microbiologia – per rendere manifesta una complessità invisibile. Grandi fotografie di lupi per investigare il rapporto tra ecologia, storia naturale e politiche agricole, le immagini dei celebri ponti “razzisti” di Long Island, i dettagli zoomati e sgranati della nebbia tra gli affreschi del Lorenzetti e così via. Tutto era opera, niente era un’opera. Ha cambiato il modo in cui guardo ogni cosa.

Pavilion Suite, exhibition view, opere di Daniel Gustav Cramer. Photo Gaia Cambiaggi, ©THEVIEW, 2016

Pavilion Suite, exhibition view, opere di Daniel Gustav Cramer. Photo Gaia Cambiaggi, ©THEVIEW, 2016

Qual è l’artista che ha influenzato di più il tuo approccio alla pratica curatoriale e perché?
Ho sempre amato le opere giovanili di ogni autore, i momenti di rottura e trasformazione di una pratica, l’attimo di silenzio prima della rivoluzione. Come se nei primi pezzi in forma grezza e incompiuta – ma fresca e vibrante – fosse già contenuto tutto. Ricordo in questo senso una bellissima mostra a Vaduz al Kunstmuseum Thomas Schütte. Early Works (2007-2008). Lavori inediti riscoperti dallo stesso Schütte nei suoi archivi. Opere, sample e prove risalenti agli Anni Settanta, quando l’artista tedesco ancora giovanissimo era studente dei corsi di pittura di Fritz Schwegler e Gerhard Richter. Campioni di colore che già rivelavano e contenevano il lavoro di Schütte sulla scultura e l’architettura. La mostra era un’opera in sé. L’allestimento di una trasformazione biologica, umana. Da bidimensione a volume, da campitura a corpo.

Perché, a tuo modo di vedere, l’architettura necessita di un dialogo storico, non solo iconografico, con l’arte contemporanea?
Non so davvero se l’architettura sia alla ricerca di un dialogo storico con l’arte. Mi spaventa terribilmente senz’altro la possibilità che l’architettura si avvicini all’arte sedotta solo da assonanze formali. Questioni iconografiche, come dici tu. E purtroppo accade molto spesso. Il travaso tra le discipline deve ovviamente accadere sui contenuti. In questo senso, insieme a Bruna Roccasalva, Vincenzo de Bellis e Anna Daneri nel 2012 abbiamo portato a Milano da Peep-Hole un progetto del quale vado molto fiero: l’archivio video di Helke Bayrle, Portikus Under Construction. Decine e decine di video girati durante gli allestimenti di tutte le mostre costruite a Portikus in 30 anni. Materiale prezioso che Helke mi diceva sarà presto free online per tutti. Una Kunsthalle temporanea che si trasforma e diventa cucina per Tiravanija, macchina motore per Simon Starling, e poi ancora palestra, laboratorio, conference room e così via. I video sono ritratti privati dei dietro le quinte. Elmgreen & Dragset che martellano chiodi nei muri, Matthew Barney che guarda i suoi disegni. Gli artisti indecisi, che sbagliano, che cambiano. La mostra nel suo farsi. Un caso studio d’arte, architettura e storia della forma del museo.

All’interno delle diverse residenze per curatori alle quali hai partecipato, quale fra i corsi, o le lezioni ti ha maggiormente insegnato a lavorare per il pubblico, di qualsiasi genere esso sia?
Senz’altro il programma Emerging Curator del CCA di Montreal. Invitato tra il 2013 e il 2014 a proporre un progetto espositivo per il museo, ho deciso di esplorare uno strano caso di politica, urbanistica e filosofia delle tecnica dibattuto tra l’Europa e gli Stati Uniti tra gli Anni Ottanta e Novanta: la storia controversa degli inquietanti ponti commissionati da Robert Moses durante le prime tre decadi del ‘900. Lo strumento più adatto a investigare il caso e proporlo al pubblico non era la mostra, ma il film. Così insieme al museo – in questo caso in veste di producer – e al regista iraniano Shahab Mihandoust abbiamo prodotto un mediometraggio che – immaginando una struttura curatoriale a domino– ha poi generato una tavola rotonda aperta, e poi un e-pub edita dal CCA, Can Design Be Devious? (2016). Il progetto esplorava temi complessi – aveva a che fare con l’architettura, gli studi sociali della tecnologia e l’arte, lambendo questioni quasi vicine all’animismo: la struttura curatoriale del lavoro si è trasformata: da mostra a film a dialogo, proprio per coinvolgere al meglio il pubblico nel dibattito controverso che il progetto cercava di esplorare.

Pavilion Suite, exhibition view, opere di Ian Law e Zayne Armstrong. Photo Gaia Cambiaggi, ©THEVIEW, 2016

Pavilion Suite, exhibition view, opere di Ian Law e Zayne Armstrong. Photo Gaia Cambiaggi, ©THEVIEW, 2016

E per quanto riguarda THEVIEW Studio?
Vittorio Dapelo ha deciso con THEVIEW di attraversare il mondo dell’arte in modo obliquo, di esplorare un modello nuovo lontano da fiere e gallerie e vicino alle opere e agli artisti. THEVIEW è uno studio di produzione, ma anche il prosieguo naturale dei progetti di Vittorio che dagli Anni Settanta con le opere site specific della Villa dei cento camini di Artimino e con il programma di Locus Solus a Genova si è sempre mosso tra le pieghe del sistema nel tentativo di proporre modelli inattesi. La possibilità di curare tutto il processo di produzione di un’opera mi affascinava moltissimo: THEVIEW propone a un autore l’occasione di fare reagire – in un tempo lungo – lo strano esotismo ligure con alcuni centri di produzione quasi dimenticati – Albisola per esempio – di operare in un ecosistema che si muova parallelo al consueto meccanismo opera, galleria, fiera.

Come interagiscono cinema e scultura nelle sale di Palazzo Durazzo?
Pavilion Suite per le stanze vuote di Palazzo Durazzo in Via del Campo a Genova è una mostra curata insieme a Vittorio Dapelo con Maddalena Quarta – da qualche mese parte del team di lavoro di THEVIEW – che chiude la sequenza di personali del 2015 del progetto Sant’Ilario Pavilion. Cinque film che raccontano la storia di altrettante opere di Daniel Gustav Cramer, Haris Epaminonda, Ian Law, Davide Stucchi e Peter Wächtler concepite per il piccolo spazio di ferro e vetro dell’ex-fiorista di Sant’Ilario.

Su cosa hanno lavorato gli artisti?
La committenza è nata così: gli artisti sapevano che le loro opere per Sant’Ilario sarebbero state allestite nel padiglione di fronte al mare il tempo necessario a girare un film sulla loro storia, sulla loro presenza lì. La costruzione e genesi delle opere è stata sin da subito influenzata dal modello curatoriale: ogni pezzo sarebbe stato davvero visibile dal grande pubblico solo in versione cinematografica. I film in mostra si collocano in quella zona grigia che esiste oggi forse più che mai tra la pratica della documentazione e quella della presentazione, tra l’opera e la distribuzione della sua stessa immagine. In mostra le sculture tra le penombre del Palazzo sono solo frammenti, riflessi o pezzi delle opere concepite per il Pavilion.

Quali caratteristiche, quali spazi, metaforici o reali, preserva Genova, rispetto a Milano, per far crescere un dialogo vivo, esemplare tra le discipline? Potresti citare alcuni progetti che ti hanno maggiormente colpito del capoluogo ligure?
Ilaria Bonacossa a Villa Croce ha fatto un lavoro egregio in questi anni ed io sono felice di aver spesso collaborato con lei. Ora sto curando DAVANTI AL MARE – Atto I, un progetto concepito da Dapelo e prodotto proprio dagli Amixi di Villa Croce che ha come protagonista Diego Perrone. Stiamo lavorando – tra città e museo – sull’ossessione della modellistica navale, l’autismo mentale che la costruzione di un modello può produrre.
Il progetto, l’opera, il luogo che amo più di Genova è il Tesoro di Albini, nei sotterranei della Chiesa di San Lorenzo. Per una ragione precisa: il modo in cui Albini è stato in grado di interpretare la commissione e l’atmosfera del luogo. Solo dopo qualche minuto ci si accorge che il ferro dei profili di tutte le teche della cripta è stato interamente martellinato: la tecnologia del tempo ammorbidita da una sbozzatura. La modernità più secca che diventa arcaica e primigenia attraverso un gesto quasi invisibile.

Pavilion Suite, exhibition view. Photo Gaia Cambiaggi, ©THEVIEW, 2016

Pavilion Suite, exhibition view. Photo Gaia Cambiaggi, ©THEVIEW, 2016

Quando hai conosciuto Jos de Gruyter e Harald Thys e come si è svolto il tuo primo studio visit da loro?
Dopo aver visto il loro film presentato alla Biennale di Berlino del 2008 – The Frigate – ho chiesto subito a Isabella Bortolozzi di poter organizzare un incontro. Ci siamo visti per un’intervista a Bruxelles in un caffè. Abbiamo parlato per ore del sotterraneo di Ten Weingaert, un community center della capitale belga concepito in principio come una piccola utopia sociale e finito poi per diventare un inquietante luogo – enclave per persone afflitte da turbe psichiche. Abbiamo discusso di quell’architettura, degli occhi spalancati e immobili dei personaggi delle loro opere, della possibilità di pensare alle persone come oggetti e agli oggetti come persone. Non abbiamo mai pubblicato quell’intervista. Da quel giorno siamo diventati molto amici.

Quali saranno le tematiche della loro prossima mostra in Triennale?
Elegantia – prima personale in un museo italiano di Jos de Gruyter & Harald Thys– è stata concepita insieme agli artisti come una messa in scena dell’idea stessa di mostra, il riflesso mentale, il miraggio di un allestimento. Negli spazi del primo piano della Triennale ci saranno grandi sculture antropiche, una serie di acquerelli dai soggetti ambigui come Fine Arts (2014), concepiti per Raven Row Londra e MoMA PS1, un gruppo di sculture in terra cruda provenienti da un inquietante laboratorio di ceramica; piccoli esperimenti sulla forma umana. Ci saranno sculture di teste pseudo-classiche e persino una grande fontana. Elegantia dovrebbe apparire – al primo sguardo – quasi come la costruzione di un possibile stereotipo di mostra sulle “Belle arti” per poi rivelarsi solo dopo qualche attimo come un catalogo torbido di scene inquiete, in cui gli occhi e gli sguardi delle figure in mostra sono vuoti e spaventati, i loro corpi stupidamente bidimensionali e l’architettura dello spazio che li ospita – essa stessa opera in mostra – è una scena finta, da un lato quasi caricaturale dall’altro terribilmente opprimente.

Potresti fare alcuni esempi?
Insieme a Jos e Harald abbiamo spesso guardato in questi mesi ai set finto-artificiali delle fiction italiane Anni Novanta e alle scenografie per il cinema di Brass di Paolo Biagetti, ad esempio. Indirettamente ispirata all’ipertrofica storia di allestimenti di Triennale, Elegantia è un’ostentazione ossessiva dell’idea stessa di “display” e si rivela poi come il racconto del suo stesso fallimento. In tedesco – lingua e cultura dalla quale Harald Thys è sedotto e ossessionato – la parola “miraggio” contiene la radice di “spiegel”, specchio; come se solo osservando la realtà attraverso un suo riflesso sia possibile per un attimo riuscire ad afferrarne la natura, capire qualcosa in più. Rendersi conto di ciò che esiste tra innocenza e depravazione, ironia e paura. Interi gruppi di lavori del duo di Bruxelles sono concepiti come corpi di opere di un autore “altro”, che abita un mondo parallelo. Prodotti di una mente disturbata, in cui innocenza e orrore, paura e ironia si confondono tra i silenzi delle cornici e delle sculture in mostra. Forse con Elegantia cerchiamo di raccontare ciò che è nascosto dietro la scena di un’apparente normalità.

Potresti esprimere un augurio, un pensiero che accompagni questa tua prossima mostra?
Per Projekte 13 – la loro personale a Kunsthalle Basel nel 2010 – Jos de Gruyter e Harald Thys avevano modificato in modo sottile lo spazio delle gallerie e chiesto ai custodi di serrare le grandi porte bianche della sala d’ingresso subito dopo il passaggio di ogni visitatore. Il mondo esterno si chiudeva alle spalle di ogni spettatore che iniziava così, passo dopo passo, ad abitare lo spazio parallelo dei circa cinquecento disegni ricalcati a matita di De Gruyter & Thys. Sarei felice se in Triennale – come a Basilea – la mostra potesse diventare luogo. Forma fisica di uno spazio mentale.

Ginevra Bria

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Ginevra Bria

Ginevra Bria

Ginevra Bria è critico d’arte e curatore di Isisuf – Istituto Internazionale di Studi sul Futurismo di Milano. È specializzata in arte contemporanea latinoamericana.

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