Il cinema italiano va in analisi. Per crisi di idee

L’esclusione da Cannes suona la sveglia al cinema italiano, che però non riesce a uscire da una spirale di commedie ritagliate sulle crisi di coppia. Qualche titolo, e troppe analogie, spingono a chiederci se l’Italia non sia anche molto altro.

Che cosa sta succedendo al cinema italiano? La seconda esclusione di fila dalla cerchia delle opere in concorso al Festival di Cannes suona come un allarme per la nostra industria cinematografica. Forse all’estero non piacciamo più? Forse i premi internazionali rappresentano un termometro affidabile dello stato di salute dei nostri film? In realtà non sono i riconoscimenti a mancarci: abbiamo trascorso periodi ben peggiori di questo, senza che per anni e anni alcun Sorrentino vincesse l’Oscar o Rosi l’Orso d’Oro del Festival di Berlino. Senza cioè che gli autori, quei pochi ma ottimi registi e sceneggiatori che abbiamo, salvassero il nostro cinema dall’inconsistenza. Eppure la crisi, che poi è “soltanto” una crisi di idee più che di industria o sistema, c’è ed è pesante; per accorgersene non serve guardare da lontano, due o tre volte all’anno, alle passerelle delle più importanti rassegne del mondo: anzi, talvolta questo può essere addirittura fuorviante. Basta invece andare o essere andati qualche mercoledì, magari quando l’ingresso costa due euro, alla sala sotto casa, o meglio al multisala più vicino.

CRISI DI COPPIA

Il cartellone di aprile propone due titoli italiani che affrontano problematiche simili: Moglie e marito, con Kasia Smutniak e Pierfrancesco Favino, e Lasciati andare, con Toni Servillo e Carla Signoris. Al di là dei meriti o demeriti intrinseci dei film (più i primi dei secondi, per quanto ci riguarda), è curioso, o forse no, che entrambe le trame ruotino attorno a una crisi di coppia, trattino tale tematica in un’ottica di commedia brillante, prevedano la figura dell’analista o come protagonista (Servillo) o come personaggio del tutto accessorio ma comunque indicativo (Moglie e marito inizia nello studio dello psicoterapeuta); insomma è curioso, o forse no, che entrambi i film siano sostanzialmente uguali nel proporre una visione degli italiani completamente ripiegati sui propri problemi sentimentali, bisognosi di sostegno psicologico, spesso anche inclini alla scappatella o alla storiella, il tutto condito di grande e italianissimo umorismo.

L’AMORE AI TEMPI DI WHATSAPP

Due film non fanno una prova. Allora, più che al terzo film di aprile, Piccoli crimini coniugali, con Castellitto e Buy, che, pur essendo incentrato su tematiche sempre simili, è tratto da un libro straniero, guardiamo a un altro recente film, di strepitoso successo al botteghino. Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese è una commedia brillante che ruota attorno a crisi di coppia non ancora scoppiate, per il semplice motivo che non sono ancora venute a galla. Basterà una cena tra amici per far emergere tradimenti, segreti e nevrosi, il tutto ovviamente condito di irresistibile ilarità. Anche in questo caso non sono in discussione i meriti o demeriti del film (molto più i primi dei secondi, a nostro parere). È curioso, o forse no, che anche quando la trama è corale, non tutta incentrata sulle vicende di due soli protagonisti, il film non faccia altro che du-, tri- o quadruplicare le dinamiche di crisi pre- o post-coniugale. Il successo di Perfetti sconosciuti, oltre alle intelligenti battute, è forse dovuto proprio alla capacità di rappresentare qualcosa di molto da noi sentito (ed emergente), ovvero l’amore ai tempi di Whatsapp. Ma non c’è società, non c’è racconto collettivo al di fuori degli intrecci di coppie: la società non è altro che la somma di tante tavole di amici o finti amici che cenano insieme.

IL VUOTO OLTRE LA COPPIA

Forse tre film, di cui uno di grandissimo successo, cominciano a costituire un po’ più di un indizio. Ferzan Ozpetek ha detto in un’intervista al Corriere della Sera che in Italia si fanno troppe commedie. Ha ragione, ma neanche del tutto. Il problema italiano non è la predilezione per il genere della commedia, in cui da sempre siamo maestri; è il ripiegamento su una rappresentazione molecolare (altro che liquida) della società, in cui la coppia, in tutte le sue forme (famiglia “ufficiale”, separati, compagni), è l’unico collante tra le persone. Al di fuori di questo schema – riduttivo, ma altri sociologicamente diranno realistico –, il cinema italiano non riesce a esprimere una visione forte dei nostri rapporti o problemi. Con le dovute e sporadiche eccezioni, come Paolo Virzì che ne La pazza gioia ribalta coraggiosamente e in modo inedito, a metà tra la commedia e il dramma, il tema della follia nella società, o Lo chiamavano Jeeg Robot, che però è un’opera unica e sperimentale e come tale non facilmente replicabile, i nostri registi e sceneggiatori, ma anche i nostri produttori, si sono avvitati in una spirale borghesissima fatta di salotti ben arredati, lettini di psicanalisti, ristorantini chic, scrivanie di divorzisti. L’Italia è davvero, e solo, questo? Non c’è, almeno in teoria, molto altro da raccontare là fuori, anche mantenendo (se lo si desidera) il registro della commedia?
È vero, siamo in crisi: il cinema di idee.

Marco D’Egidio

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Marco D'Egidio

Marco D'Egidio

Ingegnere civile con la passione dell'arte e del cinema, scrive recensioni per Artribune da quando la rivista è stata fondata. Nel frattempo, ha recensito anche per Giudizio Universale e pubblicato qualche editoriale sul sito T-Mag. Sempre a tempo perso, tiene…

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