Chi ha paura di Donald Trump? Il disprezzo degli artisti

Mancano due mesi alle elezioni più importanti del globo. Il prossimo novembre gli USA avranno il loro nuovo Presidente. In corsa la democratica Hillary Clinton e il repubblicano Donald Trump. Fiumi d’inchiostro si consumano, da mesi, intorno a questa sfida. E la figura di Trump scatena paure, sospetti, ansie. L’America progressista teme di prendere una brutta batosta. Particolarmente attivi, contro il milionario newyorchese, sono gli artisti, gli attori, i musicisti, il mondo della cultura. Una dura lotta, contro il potenziale dittatore. Con qualche eccezione.

MOBY, IN GUERRA CONTRO TRUMP
È stato fra i pionieri dell’elettronica Anni Novanta, oggi star consacrata a livello internazionale. Richard Melville Hall aka Moby – che ha sfornato il suo 11esimo disco nel 2013 e che nel frattempo ha aperto un ristorante per vegani a New York, il cui ricavato va tutto alla causa animalista – al momento è impegnato con vigore nella campagna elettorale per la Presidenza degli Stati Uniti d’America. Più che a favore di Hillary Clinton, contro il candidato repubblicano Donald Trump.
Cosa non sopporta Moby del magnate newyorchese? Esattamente ciò che irrita e spaventa milioni di americani e non. Razzista, maschilista, guerrafondaio, insensibile alla causa dei diritti civili, fanatico della libera circolazione delle armi, favorevole alla pena di morte e perfetto rappresentante del sogno americano nella sua versione più kitsch e patinata: così lo disegnano in tanti (e così in buona parte si disegna anche lui, certo di conquistare una buona fascia di elettorato).

Moby, Music From Porcelain - doppio CD e autobiografia

Moby, Music From Porcelain – doppio CD e autobiografia

LA FOTOGRAFIA COME RAPPRESENTAZIONE DEL POTERE
Lo scorso 23 agosto Moby ha pubblicato sulla sua bacheca Facebook un ritratto di famiglia: Mr. Trump in poltrona, cravatta e abito scuro; sua moglie Melania, bellissima, posa sexy, chiome e mini dress al vento; il figlioletto Barron, a cavallo di un leone a dondolo (forse simbolo della caccia, che i fratelli maggiori praticano con passione, da ottimi tiratori e da bravi membri dell’NRA, la potente lobby delle armi). I tre posano in un ambiente sfarzoso: soffitto affrescato, poltrone barocche, finestra a vetri sullo skyline, colonne corinzie, damaschi sul pavimento, intarsi pregiati e lampadari gioiello. L’immagine fa parte di una serie, dedicata a Donald e Melania, che la fotografa belga Regine Mahaux firmò nel 2011 per Getty Images. Foto da vip, scintillanti e celebrative: la perfetta rappresentazione di quel mondo dorato in stile Beautiful, che Trump incarna con convinzione.

Il post di Moby del 23 agosto 2016, con una foto di Regine Mahaux

Il post di Moby del 23 agosto 2016, con una foto di Regine Mahaux

Mi piace lavorare con l’immagine di questa famiglia”, ha raccontato Regine a French Morning. “Ho molta libertà e responsabilità. Mi hanno lasciato esprimere come un’artista. I Trump sono lontani da ciò che vedo sulla stampa. Lavorano duro e prendono sempre le cose sul serio. So che la stampa europea è molto severa con Donald Trump, non so se è lo stesso negli Stati Uniti. Lo attaccano per un sacco di motivi che io non vedo”. Lei, ormai fotografa ufficiale di corte, non vede il lato oscuro. Al contrario di Moby, che al margine della foto di Regine ha snocciolato una serie di commenti caustici, soffermandosi sul fattore “ostentazione”, sul cattivo gusto, sulle limousine giocattolo del pargolo… E non dimenticando di appellare Trump come misogino, razzista e arrogante.

La foto di Regine Mahaux su una copertina di Vanit Fair

La foto di Regine Mahaux su una copertina di Vanit Fair

IL DISPREZZO DELLE CELEBRITÀ. CON QUALCHE ECCEZIONE
Ma Moby, in questa sua idiosincrasia per il candidato di destra, non è solo nel milieu dello spettacolo. Sono 120 le star del cinema e della musica che hanno aderito alla campagna “Artists United Against Hate”. L’obiettivo? Spiegare agli americani che il nocciolo del messaggio politico di Trump è uno solo: seminare il conflitto. Tra gli attivisti ci sono gli attori Julianne Moore, Meg Ryan, Jane Fonda, musicisti come Michael Stipe e Third Eye Blind, scrittori-registi come Lena Dunham e Michael Mann. Il sito raccoglie adesioni di cittadini e avvisa con chiarezza: “Donald Trump vuole portare il nostro paese indietro nel tempo, quando la paura giustificava la violenza, quando l’avidità alimentava la discriminazione, quando lo stato trasformava in legge il pregiudizio contro le comunità emarginate”.
Non manca la lista di chi verrebbe principalmente colpito dalla sua azione di governo: cittadini messicani e latini, persone di colore, musulmani, donne, asiatici, disabili, classe operaia, rifugiati, prigionieri di guerra americani, comunità Lgbt. Insomma, il ritratto che viene fuori – con buona pace di Regine Mahaux – è terrificante. Uniti contro “violenza, sessismo, razzismo, xenofobia, omofobia, fascismo”, gli artisti in campo provano a smitizzare l’appeal dell’imprenditore, spiegando che dietro il profumo dei suoi dollari si nasconde null’altro che un mucchietto d’odio.

Clint Eastwood in una scena di Gran Torino, 2008

Clint Eastwood in una scena di Gran Torino, 2008

Non tutte le star, naturalmente, sono di questo avviso. Così, per una Meryl Streep che sposa in pieno la causa di Hillary, c’è un altro mito del cinema come Clint Eastwood che viaggia in senso opposto. “Ci stiamo tutti stancando del politically correct”, ha dichiarato di recente l’86enne attore e regista. “Quella in cui siamo è una generazione di leccaculo e di fighette. Per questo voto Trump, anche se ha detto un sacco di cose stupide”. Non proprio un endorsement, dunque. Eastwood ammette di non essere “sempre d’accordo con lui”, ma fa del suo voto una reazione a certi eccessi di snobismo, di pregiudizio o di conformismo buonista, come direbbero in Italia.
Trump razzista? Un’esagerazione, a suo dire. Parola di chi ha interpretato e diretto un film sul razzismo come Gran Torino, spietato, politicamente scorretto eppure dannatamente umano. Un film che fece quasi 270 milioni di dollari d’incassi e una sfilza di premi e nomination.

Bernie Sanders for president by Obey, 2016

Bernie Sanders for president by Obey, 2016

OBEY DI NUOVO IN CAMPO
E poi c’è uno come Obey. Al secolo Shepard Fairey, ormai nell’Olimpo dei miti della Street Art. Colui che, nel 2008, si era calato anima, corpo e talento nell’agone politico, sostenendo l’ascesa di Barack Obama verso la Casa Bianca. Il suo poster, con la faccia del candidato in quadricromia e una serie di parole chiave – “hope”, la più celebre – diventò l’immagine iconica della campagna. Quasi un simbolo ufficiale, ancorché del tutto indipendente.
Stavolta l’artista è sceso in campo fin dalle primarie dei Democratici, puntando su Bernie Sanders. Ha disegnato per lui una t-shirt, ha lanciato degli endorsement in rete e lo ha descritto come colui che si sarebbe preso cura “degli interessi dell’americano medio, rappresentando i principi di giustizia, uguaglianza e libertà”. Com’è noto, il senatore del Vermont ha perso la sfida in favore di Hillary Clinton. Da allora, per Obey, la corsa da supporter si è fermata. Ma l’impegno politico no.

MASA - MakeAmericaSmartAgain - Obey, 2016

MASA – MakeAmericaSmartAgain – la campagna di Obey, per le presidenziali del 2016

Lo scorso agosto, con sua moglie Amanda, ha lanciato una campagna “per combattere l’apatia degli elettori e la diffusione della disinformazione”. Fu in una intervista rilasciata nel 2015 ad Esquire che Obey si disse piuttosto deluso dal Presidente uscente, rimasto vittima delle lobby e del sistema. Ma non mancò di bacchettare anche gli elettori, giudicati in buona parte “ignoranti” e “pigri”: “Ciò che mi frustra infinitamente sono quelle persone che danno la colpa a Obama o che criticano e basta: sarebbe sufficiente fare alcune cose semplici, anche solo andare a votare, e le cose andrebbero un po’ meglio. Ci sono tante dita puntate e c’è poca azione e poca ricerca sulle dinamiche che hanno portato a questa situazione di infelicità”. Saggiamente impermeabile al populismo, all’antipolitica, al qualunquismo catastrofista. Nonostante le delusioni.
Da qui dev’essere maturata l’idea della nuova avventura. E il nome, guarda un po’, è un rimaneggiamento ironico del main slogan di Trump: “Make America Great Again” diventa “Make America Smart Again”. Un’America sveglia, intelligente. Ecco quel che serve. E tocca ai cittadini darsi una mossa, usando “voce e cervello”. La sua è allora una battaglia tutta civile, educativa, culturale. Condotta attraverso un programma di incontri, concerti, dibattiti, party, proiezioni di film e – manco a dirlo – una grafica super cool. Il tutto sperando di coinvolgere, informare, responsabilizzare gli elettori. Ambizioso ma giusto.

Il Trump di Pegasus, in versione Hitler

Il Trump di Pegasus, in versione Hitler

GLI STREET ARTIST DERIDONO TRUMP
Intanto, fa i colleghi più o meno noti, è un profluvio di murales, stencil, sticker, sculture. Una gara a chi sfotte di più e meglio. C’è il londinese Pegasus, originario di Chicago, che su un muro di Bristol ha dipinto un inquietante Trump in versione Adolf Hitler. “La storia spesso si ripete”, ha spiegato. “Le persone sono troppo spesso ignoranti oppure vinte dalla paura. Spero che la mia immagine, insieme alle migliaia di immagini create da artisti di tutto il mondo, darà agli elettori quella scossa di cui hanno bisogno”. C’è il newyorchese Hanksy, la cui irriverente “merda” a forma di Trump, circondata da moschine svolazzanti, è apparsa nel 2015 a Lower East Side, Manhattan, ed è subito diventata virale, stampata su sticker, poster, spillette.

Donald Trump secondo lo street artist Hanksy

Donald Trump secondo lo street artist Hanksy

Un must è poi il famoso bacio sulla bocca tra Brezhnev e Honecker, reinventato per l’occasione: su un palazzo di Bristol a baciarsi appassionatamente sono Trump e Boris Jhonson, alias Mr. Brexit. Dietro c’era l’associazione We are Europe, in campo a favore del Remain. A Vilnius, capitale della Lithuania, l’artista Mindaugas Bonanu immagina invece il bacio fra Trump e Putin, legati da dichiarata simpatia. Abbracci simbolici fra conservatori e nazionalisti, dal nuovo al vecchio continente.
In Brasile Butcher Billy ha dato vita all’improbabile fusione fra Trump e il genio del surrealismo in pittura, René Magritte: una finta quadreria di poster svela così alcune perle, dall’eloquente “Ceci n’est pas un être humain” a una nuova versione degli amanti velati. Parodia con citazione colta, forse rimarcando quanto surreale sia il soggetto in questione.

Trump come un quadro di Magritte - un'opera di Butcher Billy 2

Trump come un quadro di Magritte – un’opera di Butcher Billy 2

Gli fa eco Tabby: “È il sogno americano di essere super ricchi e di dire qualunque cosa si voglia, pur non avendo nessun contatto con la realtà”. Tra i suoi stencil anti-Trump, quello ispirato a Narciso: il vecchio Donald che bacia se stesso. Più autoreferenziale di così.  Lungo Leonard Street, Londra, il portoghese Furia ACK ha dipinto un mega ritratto in bianco e nero del candidato repubblicano, con una scritta a fianco: “Democrazia – quando anche un idiota ha voce in capitolo”. È finito sui giornali l’attacco di un gruppetto eterogeneo, che ha preso il murale a colpi di uova. L’artista? Non li ha certo condannati, anzi.

Tabby - Donald Trump, Love Yourself - 2016

Tabby – Donald Trump, Love Yourself – 2016

E intanto, fra tendenze isolazioniste, retoriche protezioniste e promesse di ricchezza per tutti (quando dici la logica: la stessa di quegli italiani che sognano la lira per vincere la crisi), Trump finisce nella lista dei dieci principali fattori di rischio mondiali. Secondo l’Economist Intelligence Unit, la sua vittoria scatenerebbe nuove guerre commerciali, una frattura col Messico e l’esultanza dei “reclutatori di estremisti in Medio Oriente”, favoriti dalla sua retorica anti-Islam.
Sintonia perfetta col mondo dell’arte. Lo scorso giugno, all’ingresso dell’hotel Les Trois Rois di Basilea, il pubblico di Art Basel si è imbattuto in una scultura iperrealista anonima, che doppiava il celebre Him di Maurizio Cattelan. A chiedere perdono in ginocchio, però, non c’era Hitler ma un piccolo Trump. Dittatore del Terzo Millennio o improbabile macchietta? Certo, con i mercati terrorizzati dalla sua demagogia anti establishment e anti globalizzazione, la corsa al massacro si tinge di accenti esasperati. E il personaggio, di suo, aiuta parecchio. Ma alla fine, magari, non resterà che il sapore di una sconfitta. Cosa di cui lo stesso Trump non sembra preoccuparsi troppo: “Se perdo? Credo che andrò a Turnberry [la sua tenuta in Scozia, N. d. R.] a giocare a golf o qualcosa del genere”. Vip (e spacconi) si nasce. 

Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, giornalista, editorialista culturale e curatrice. Ha innsegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a…

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