Tecnica (poca) ed empatia (molta). Intervista con Steve McCurry

Di lui sappiamo già molto. Lo abbiamo incontrato sulle pagine di riviste iconiche per gli amanti del reportage fotografico, le sue opere sono state raccolte in fortunati volumi ed esposte in diverse città italiane. Conosciamo la predilezione per i colori saturi e lo sguardo umanista, affinato in quarant’anni in giro per il mondo a caccia di storie. La mostra “Oltre lo sguardo” ha portato Steve McCurry in Italia, a Monza, dove ci ha tolto qualche curiosità.

Steve McCurry (Philadelphia, 1950) non ha bisogno di presentazioni. Sarebbe inutile cercare di stilare un elenco esaustivo dei premi ricevuti, delle stampe battute all’asta per cifre a cinque o sei zeri, degli incarichi prestigiosi conquistati, dal Calendario Pirelli al progetto Last Roll of Kodachrome per Kodak, delle mostre italiane che hanno reso omaggio al suo lavoro negli ultimi cinque anni. Il più famoso dei fotoreporter americani parla soprattutto attraverso le sue fotografie, che hanno saputo farsi strada nell’inconscio collettivo e lì rimanere come simboli e icone, così potenti che per l’occidentale medio lo strazio dei profughi afgani ha gli occhi sgranati di una dodicenne.
Lo abbiamo incontrato a Monza, a Villa Reale, in occasione della mostra Steve McCurry. Oltre lo sguardo. Ci ha parlato del potere delle immagini, delle difficoltà del lavoro “sul campo” e del rapporto a volte complesso con la committenza.

Le sue mostre italiane più recenti sono state allestite in spazi di vario genere, dall’archeologia industriale del Macro Testaccio, a Roma, a Santa Maria della Scala a Siena, per arrivare agli stucchi settecenteschi di Villa Reale. Uno spazio espositivo diverso determina una fruizione diversa?
Ho avuto la chance di lavorare con scenografi che hanno una visione, un’idea precisa di come le mie opere possano essere esposte in spazi anche molto diversi tra loro. Ogni allestimento è stato studiato su misura per un determinato spazio espositivo, e tutti hanno avuto successo.

Steve McCurry

Steve McCurry

In Oltre lo sguardo si è scelto di affiancare le immagini senza seguire un criterio cronologico o geografico, privilegiando il singolo scatto rispetto alla serie, a differenza di quanto avviene nel reportage. Per quale motivo?
Quando lo scenografo mi presenta le sue idee per allestire lo spazio, discutiamo dei diversi modi in cui le fotografie potrebbero essere esposte. Parliamo di come le immagini possono essere accostate, e quale fotografia potrebbe fungere da contrappunto per le altre che le stanno intorno. Più di ogni altra cosa, vogliamo evitare la prevedibilità. Vogliamo che ogni immagine sia autosufficiente, ma anche che abbia un rapporto dialettico, che “funzioni” in un certo modo con le altre. Speriamo che i visitatori vedano le loro stesse storie riflesse nelle fotografie.

Alcune delle immagini esposte a Monza provengono dal Last Roll, l’ultimo rullino di pellicola Kodachrome prodotta dalla Kodak. In che modo il passaggio alla fotografia digitale ha modificato il suo modo di lavorare?
Non sottolineeremo mai abbastanza la portata del cambiamento che il digitale ha rappresentato per la fotografia in condizioni di scarsa illuminazione. Posso realizzare a mano libera scatti che prima richiedevano l’uso di un treppiede. È possibile congelare l’azione scattando con luci estremamente basse, laddove sarebbe stato necessario lavorare su treppiede e scattare a mezzo secondo riuscendo a “bloccare” l’immagine forse due o tre volte per pellicola. Con una fotocamera digitale è possibile ottenere una buona fotografia nella quasi totale oscurità. È uno strumento fantastico che non avevamo venticinque anni fa.

Steve McCurry a Monza

Steve McCurry a Monza

Al centro del suo lavoro c’è, da sempre, l’uomo, fotografato in situazioni spesso difficili. Che tipo di rapporto instaura con i soggetti dei suoi scatti?
Quando vedo oppure incontro per strada qualcuno che ha un aspetto particolare, o una caratteristica speciale, qualcuno che trovo affascinante o interessante, credo che questa persona possa percepire il mio entusiasmo. Quando chiedo loro il permesso di fotografarli con rispetto e un pizzico d’ironia, credo che questo lo coinvolga nel processo e che il soggetto, alla fine, sia emozionato quanto me.
Ho imparato che l’ironia è universale. Tu ti esprimi con i gesti, mimi qualche azione e la gente ride. È molto semplice usare l’umorismo per creare un legame con le persone, in qualunque cultura. Si crea una particolare alchimia, che può svilupparsi anche molto rapidamente. Non per forza servono ore, è più che altro una questione di fiducia che deve essere instaurata e della convinzione che si farà qualcosa di buono.

Una fotografia potente condensa un’intera storia in uno scatto, in un singolo istante. Quanto c’è di pianificato e quanto, invece, di spontaneo nelle sue fotografie?
Ho raramente un programma preciso e mi sembra che le giornate più divertenti e produttive siano state quelle in cui mi alzavo e me ne andavo semplicemente in giro in cerca di soggetti e situazioni da fotografare. È sorprendente come le cose accadano da sé e le immagini si rivelino da sole. Negli anni, ho sviluppato la capacità di guardare una scena e identificare la qualità della luce, e come diverse parti di una veduta possano combinarsi nell’inquadratura. Fotografi come Cartier-Bresson scattavano usando soltanto uno o due obiettivi, e sfruttando per lo più la luce ambientale. Penso che la semplicità di un simile approccio si traduca in una qualità senza tempo. Concentrarsi troppo sull’aspetto tecnico distrae dalla potenza intrinseca dell’immagine.

Roma, Steve McCurry al Macro Testaccio - La Pelanda - allestimento di Fabio Novembre (Foto Tommaso Martelli)

Roma, Steve McCurry al Macro Testaccio – La Pelanda – allestimento di Fabio Novembre (Foto Tommaso Martelli)

Alcune delle sue immagini sono diventate vere e proprie icone, indelebili nella memoria collettiva, e vivono di vita propria, indipendentemente dalle sorti del soggetto fotografato e perfino dal loro creatore. Si sente un po’ prigioniero di questo meccanismo?
Penso che le immagini abbiano un potere immenso sulle nostre vite. Quando guardiamo indietro alla storia recente e pensiamo a eventi o persone che hanno avuto un ruolo nella cultura o nella società mondiali, evochiamo quasi sempre una fotografia che abbiamo visto. Quando pensiamo al presidente Kennedy, per esempio, ci raffiguriamo un’immagine iconica. Nello stesso modo, ci vengono in mente immagini ben precise quando pensiamo alla guerra del Vietnam.
La fotografia ha una grande capacità di resistenza nel nostro immaginario, alcuni scatti rimangono semplicemente impressi nella nostra mente. La fotografia è una modalità di comunicazione così universale e profonda che non credo sarà mai veramente soppiantata da altri media. Per me, la potenza della fotografia risiede soprattutto nel fatto che ci presenta un istante congelato nel tempo, un’immagine stampata nella nostra memoria alla quale possiamo ritornare.

Steve McCurry - Sensational Umbria - veduta della mostra presso l'Ex-Fatebenefratelli e Palazzo Penna, Perugia 2014 - backstage

Steve McCurry – Sensational Umbria – veduta della mostra presso l’Ex-Fatebenefratelli e Palazzo Penna, Perugia 2014 – backstage

Come cambia il suo approccio a seconda che il lavoro sia commissionato da una rivista come il National Geographic, da un ente o un’azienda – dalla Regione Umbria a Lavazza, per citare due esempi recenti – oppure si tratti di un progetto personale?
Per me, la fotografia è soprattutto andare in giro e osservare. I miei principali campi d’interesse sono il reportage e il fotogiornalismo. Più in generale, mi interessa documentare la vita nel mondo in cui viviamo. Penso che perdersi – per strada, in città o in un villaggio – sia il modo migliore per conoscere davvero persone e situazioni. Lavorare su una storia per una pubblicazione insegna molte cose, dal lavoro con i giornalisti alla gestione delle scadenze, a tutto il processo che consiste nel mettere insieme immagini e parole per dare vita a una storia che sia coerente. Il lato negativo è che spesso un caporedattore considera l’inquadratura e la composizione soltanto in funzione dell’impatto dell’immagine. Questo approccio può andare a discapito di quel mistero e di quell’ambiguità che possono dare un valore supplementare a una fotografia.
Lavorare su un progetto personale lascia la libertà di esplorare le sfumature e seguire lo sviluppo lento, diciamo “organico” di una storia, come non sempre si riesce a fare lavorando per un committente, con scadenze ben definite.

Quali fotografi contemporanei apprezza?
Elliott Erwitt, Sebastião Salgado e James Nachtwey. Ognuno di loro ha uno stile proprio, completamente diverso da quello degli altri, ma sono i migliori in quello che fanno.

Giulia Marani

Monza // fino al 6 aprile 2015
Steve McCurry oltre lo sguardo
a cura di Biba Giacchetti e Peter Bottazzi
VILLA REALE
Viale Brianza 1
02 89096942
www.mostrastevemccurry.it

MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/39512/steve-mccurry-oltre-lo-sguardo

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Giulia Marani

Giulia Marani

Giornalista pubblicista, vive a Milano. Scrive per riviste italiane e straniere e si occupa della promozione di progetti editoriali e culturali. Dopo la laurea in Comunicazione alla Statale di Milano si specializza in editoria a Paris X-Nanterre. La passione per…

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