Joan Grossmann e la comunità artistica dei Sixties

Rockaway Beach è la mitica spiaggia di New York celebrata dall’omonima canzone dei Ramones e recentemente devastata dall’uragano Sandy. Qui il MoMA ha allestito, con la Volkswagen, il MoMA PS1 Dome.

Il MoMA PS1 Dome è uno spazio flessibile, un centro culturale temporaneo per rivitalizzare la vita di quartiere. Qui che il 22 giugno è stato proiettato Drop City, documentario sulla leggendaria comunità artistica degli Anni Sessanta ispirata ai principi di Buckminster Fuller, il celebre architetto ideatore della Cupola Geodetica. Ne abbiamo parlato con l’autrice Joan Grossmann che, in tempi (come questi) di emergenza climatica e ambientale, ritiene che i concetti alla base di Drop City siano quanto mai attuali.

Cosa ti ha spinto a interessarti a Drop City?
Ho iniziato a interessarmi a Drop City quando Tom McCourt – il mio coproduttore – mi ha mostrato le foto delle cupole, circa sei o sette anni fa. Sono rimasta senza parole, non avevo mai sentito parlare di Drop City. Ne ho amato subito i colori e lo strano scenario desolante, mi ha colpito immediatamente come una storia capricciosa e bizzarra e… assolutamente americana: il mito di andare in Occidente e inventare il futuro. Ma amo anche il suo essere anti-americana: Drop City è stata costruita in parte in opposizione alla guerra del Vietnam e al sogno materialista americano. Tom voleva scriverci un libro e aveva messo giù il progetto. Mi ha chiesto se pensavo che potesse essere un buon documentario, sulla base delle immagini che avevo visto e ho detto di sì, provvisoriamente. Ho voluto poi incontrare alcune delle persone coinvolte in Drop City, e ho subito pensato che fossero persone meravigliose. È stato questo, in definitiva, ciò che veramente mi ha spinto a iniziare il progetto: erano tutti rimasti incredibilmente attivi come artisti, attivisti, inventori e scrittori. Le loro vite avevano avuto molti colpi di scena, ma i valori di Drop City erano ancora molto presenti, e io ero molto ispirata da tutto ciò.

Joan Grossmann, autrice del documentario Drop City - MoMA PS1, Rockaway Beach, New York, 2013

Joan Grossmann, autrice del documentario Drop City – MoMA PS1, Rockaway Beach, New York, 2013

Che rapporto è nato con gli architetti e gli artisti di Drop City?
Sono diventata amica di molti dei personaggi che compaiono nel documentario. Si sentivano spiriti affini e io continuo a passare del tempo con alcuni di loro. Purtroppo due personaggi del documentario – Peter Douthit e Charlie DiJulio – sono morti prima che fosse realizzato, ma sono stata in contatto con i membri delle loro famiglie. Abbiamo dovuto costruire fiducia intorno a noi per poter realizzare il documentario, molti di loro erano ancora diffidenti nei confronti dei media, perché ritenevano avessero contribuito alla scomparsa di Drop City.

Appunto: guardando il documentario, sembra che molte delle persone coinvolte in Drop City fossero in conflitto con i media. Cosa ne pensi?
In realtà penso che, nelle primissime fasi di Drop City, i residenti abbiano apprezzato la copertura mediatica. A loro piaceva giocare con i media, inventando soprannomi da droppers per se stessi e raccontando ai giornalisti cose folli di tutti i tipi. Inizialmente, quando la stampa underground ha iniziato a seguire Drop City, ha attirato visitatori interessanti. Nei due anni precedenti la Summer of Love del 1967, i droppers avevano una politica molto aperta nei confronti dei visitatori, ma non erano così conosciuti da essere sottoposti a una sovraesposizione. Più tardi, invece, quando divennero molto noti, la copertura dei media diventò piuttosto controversa. Alcuni droppers pensavano che la pubblicità li avrebbe aiutati a vendere la loro arte e a farsi conoscere, altri pensavano che i media stessero distruggendo la comunità, rendendoli uno spettacolo da guardare e attirando troppe persone che volevano solo mangiare, fare uso di droghe e passare il tempo.

Proiezione del documentario Drop City - MoMA PS1 Dome, Rockaway Beach, New York, 2013

Proiezione del documentario Drop City – MoMA PS1 Dome, Rockaway Beach, New York, 2013

Oggi parlare di controcultura spesso viene ridotto allo slogan “sesso, droga e rock’n’roll”. Qual è, secondo te, il vero messaggio di Drop City?
Secondo me il messaggio è che tutti noi abbiamo la capacità di agire sulle nostre vite. Ovviamente la maggior parte delle persone non pensa di costruire una nuova civiltà da scarti e rifiuti, ma tutti noi abbiamo la possibilità di prendere il controllo della nostra vita e fare qualcosa di creativo che abbia un significato esistenziale. Drop City è anche un fantastico esempio di rigore intellettuale e di unità che ha alimentato la controcultura. Alcuni droppers avevano un grande interesse per i poeti d’avanguardia e gli artisti emersi alla fine degli Anni Quaranta, il loro interesse per l’assurdo può essere legato ad artisti come John Cage. C’è, poi, l’uso di materiali di recupero, così prevalente nel lavoro Robert Rauschenberg. E, naturalmente, Buckminster Fuller, che è stato una grande fonte d’ispirazione nella costruzione delle cupole e nell’utilizzo delle risorse in modo efficiente.
Ma è anche importante ricordare che Drop City divenne un laboratorio di costruzione attraverso esperimenti con le strutture geometriche, che è andato al di là della lezione di Fuller. Alcuni dei principi sviluppati da Drop City sono diventati utili per matematici e ingegneri, attraverso lo Zometool, un kit di costruzioni geometriche tridimensionali. Qualche anno fa, quando stavamo ancora lavorando al documentario, abbiamo tenuto un evento a Trinidad, in Colorado, il luogo dove è stata costruita Drop City. Dopo che Clark Richert – uno dei fondatori di Drop City – ha parlato, qualcuno è venuto da me e mi ha detto: “Ho sempre pensato che i droppers fossero solo un gruppo di hippies. Ora so che erano geni”. Quest’affermazione mi ha reso davvero felice.

Il tema delle comunità sostenibili è molto attuale. Che significato ha per te la proiettare Drop City al MoMA PS1 a Rockaway dopo l’uragano Sandy?
Per me è stata una vera emozione. La cupola del MoMA è stata costruita nel tentativo di attirare l’attenzione della comunità dopo l’uragano Sandy e l’abbandono sofferto da Rockaway. Penso a Drop City come a una storia attuale e non qualcosa di nostalgico degli Anni Sessanta. L’uragano Sandy, i cambiamenti climatici, le economie vacillanti, le guerre in corso… tutte queste cose stanno costringendo molte persone a mettere in discussione i propri valori. Che cosa significa essere dipendenti dall’aria condizionata, dalle automobili e dalla crescita economica che avvantaggia soprattutto i più ricchi? Come possiamo risolvere i nostri problemi con modi di pensare nuovi e creativi? Credo che le nuove generazioni siano realmente affamate d’ispirazione e di idee. Ciò risulta anche evidente dall’energia pazzesca che c’è tra le persone che lavorano su nuove idee per la sostenibilità, i DIYers e gli esponenti della maker culture, ad esempio, che si sforzano di imparare a fare le cose e a non essere solo consumatori indifesi.

MoMA PS1 Dome - Rockaway beach, New York, 2013

MoMA PS1 Dome – Rockaway beach, New York, 2013

Molte persone sono terrorizzate dalla distruzione dell’ambiente e si aspettano di vedere una devastazione sempre più massiccia. L’uragano Sandy è stato un assaggio di tutto ciò, gli scienziati hanno previsto che il riscaldamento globale aumenterà i livelli del mare ad altezze invivibili e renderà inabitabili intere zone di New York. E ciò che è interessante è che gli artisti si stanno davvero avvicinando a questi problemi che richiedono risposte creative. Questo è anche il concetto alla base di Drop City. Quindi sì, la proiezione al Dome di Rockaway è stata estremamente rilevante e importante e mi piacerebbe che il documentario fosse inquadrato nel contesto dell’attuale necessità di una controcultura che sia in grado di progettare nuovi modi di vivere.

Quali sono i progetti futuri? In quali festival sarà proiettato Drop City? Quando arriverà in Italia?
Drop City è proiettato a livello internazionale, il documentario trova il suo pubblico nei musei, nei piccoli cinema, negli istituti di architettura e nei festival cinematografici. Siamo stati appena invitati dall’Architecture Film Festival di Rotterdam in autunno, e credo che questo sia un gran risultato per il documentario. Mi piacerebbe molto vederlo circolare nei festival cinematografici d’arte e d’architettura in tutto il mondo.
Il progetto è stato realizzato con un micro-budget, è una produzione fai da te, quindi sto lavorando con la nostra casa di distribuzione, la Seventh Art Releasing, per promuovere il documentario attraverso i social network e il passaparola. Ogni volta che qualcuno mi chiede: “Quando sarà proiettato qui?”, rispondo sempre: “Aiutaci a organizzare una proiezione!”. Questo, ovviamente, vale anche per l’Italia!

Marta Veltri

www.dropcitydoc.com

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Marta Veltri

Marta Veltri

Marta Veltri (Cosenza, 1983) si è laureata in architettura a Roma con una tesi sull'allestimento museale delle Terme di Caracalla. Subito dopo ha fatto parte del team che ha dato alla luce UNIRE, progetto vincitore dell'ultimo YAP (Young Architects Programs)…

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