Modena caput mundi. Parla Emilio Mazzoli

Arte Povera, e quindi Gian Enzo Sperone. È stata la grande intervista che abbiamo pubblicato sul numero 6 di Artribune Magazine. Il pendant più naturale è costituito dall’accoppiata Transavanguardia-Emilio Mazzoli. Che però qui parla di quarant’anni di carriera e settanta di vita. Non penserete mica che l’abbiamo interrotto?

Partiamo con un po’ di notizie storiche. Qual è stato il suo percorso di avvicinamento all’arte?
Avevo 26 anni, facevo il maestro elementare, e già mi interessavo un po’ all’arte grazie alla mie frequentazioni di questo piccolo sistema di gallerie che esisteva allora a Modena. Per me l’arte rappresentava un’isola di libertà. Anno per anno, ho cercato di introdurmi negli studi degli artisti per conoscerli e nel 1970 ho aperto la mia prima galleria che si chiamava Futura, nella quale inaugurai una grande personale di Giulio Turcato. L’anno seguente fui costretto a chiudere e iniziai a fare il mediatore, il courtier come si dice in Francia, cercando di consigliare i collezionisti ad acquistare quadri degli artisti con cui ero in contatto e che ritenevo validi. Nel 1977 ho riaperto una galleria con una mostra di Vincenzo Agnetti. In seguito a un incontro con Chia, il quale mi era stato presentato da Tano Festa, nacque l’idea di fare dell’arte nuova, quella che poi sarebbe passata alla storia come Transavanguardia.

Come arrivò a scegliere proprio quel tipo di pittura?
Questo cambio di direzione mi creò non pochi problemi con gli artisti con cui avevo lavorato in precedenza, specialmente con gli appartenenti al gruppo dell’Arte Povera, i quali non accettavano il rinnovamento in atto e il ritorno alla pittura. Ricordo che soprattutto un grande esponente di questa corrente, che operava a Roma, contestò questa mia scelta. Ma data l’idea di libertà che mi ha sempre caratterizzato, mi sono sentito di sostenere questo nuovo movimento. Chia e Cucchi mi presentarono Bonito Oliva e immediatamente nel ’78 facemmo questo libro intitolato Tre o quattro artisti secchi a cui affiancammo una mostra di opere di Sandro Chia e di Enzo Cucchi. Con l’attività editoriale cercai di dare una certa dignità alla galleria e decisi che da lì in poi avrei pubblicato un libro per ogni mostra. Questa cosa dei libri è il mio regalo alla cultura italiana, il lascito che desidero passi alla storia e sia per sempre legato alla mia attività.

Il rapporto con Bonito Oliva?
Achille può essere un personaggio anche abbastanza complesso, ma io ho sempre pensato a fare il mio lavoro di gallerista e lui il suo lavoro di critico. Non ho mai interferito con la sua attività e allo stesso tempo non ho mai accettato interferenze da Bonito Oliva nei confronti della mia maniera di vedere l’arte. Per lui ho avuto, e conservo tutt’oggi, una grande stima.

BEATRICE Modena caput mundi. Parla Emilio Mazzoli

Luca Beatrice

Luca Beatrice, nel libro Da che arte stai?, parlando della nascita della Transavanguardia la definisce “uomo burbero e visionario” e le attribuisce il ruolo di gallerista iniziatore del movimento. Si riconosce in questa descrizione?
Io ringrazio Luca Beatrice, ma vedi, quello è un ragazzo che secondo me sa anche scrivere in italiano, probabilmente, ma questo non basta. Recentemente ho letto un suo libro in cui si parlava anche di Basquiat, artista al quale ho dedicato parte della mia vita e parte delle mie finanze, e Beatrice mi cita solamente per dire che Basquiat veniva a Modena solo per andare a puttane, storia assolutamente inventata, dal momento che Jean-Michel viveva in albergo con altre persone e aveva troppo da lavorare per potersi permettere questo tipo di svaghi.

A proposito di Basquiat, qualche ricordo che conserva di quella collaborazione?
All’epoca, quando si chiamava ancora SAMO, era il tipico ragazzo figlio di una buona famiglia borghese americana e, sinceramente, ancora un gran bravo ragazzo.

Basquiat le è stato presentato da Annina Nosei?
No, no, assolutamente! La Nosei non sapeva neanche chi fosse Basquiat. Annina Nosei è arrivata dopo, quando Basquiat ha cominciato ad avere successo; io la prima mostra l’ho fatta in primavera, lei l’ha fatta in autunno quando era già scoppiato il lavoro. Anzi, l’anno dopo dovevo fare la mostra io, e non la feci perché la Nosei voleva la percentuale da me. Io non ero assolutamente d’accordo e non feci nessuna mostra. Se l’America era destinata a mangiare l’Italia, si vede che era il nostro destino. Abbiamo perso varie guerre e siamo diventati dei satelliti. Ho lavorato con degli americani in assoluta libertà e mai da emigrante. Anzi, quel tipo di mercato e quel tipo di persone mi ha sempre fatto un po’ ridere. Un grande potere, ma una cultura arretrata.

Nel corso della sua carriera ha trattato una serie di artisti, diciamo, “difficili”. Di Basquiat abbiamo già parlato. Mario Schifano invece?
Era l’uomo più buono del mondo. Ho lavorato bene con lui forse perché, rispetto alle altre gallerie che pensavano solamente a strategie di mercato, io possedevo un senso economico del lavoro. Io un lavoro, quando lo proponevo, poi lo compravo sempre. Per la mia educazione di personaggio padano, emiliano e modenese, la stretta di mano per me stava a significare un affare concluso, e ho sempre lavorato in quel senso lì. Un giorno ero nello studio di Schifano e gli dissi: “Mi sta per nascere un bambino, e lo voglio chiamare Mario, in tuo onore”, e lui mi regalò questo libro di disegni su cui scrisse Caro Mario, benvenuto al mondo.

MAZZOLI CON RBleckner 063 Modena caput mundi. Parla Emilio Mazzoli

Mazzoli e Bleckner

Oggi come allora convivono alcune linee-guida nel suo lavoro: la passione per la pittura (Transavanguardia soprattutto) e l’attenzione per artisti innovativi e di spessore internazionale, in qualche modo sempre sulla cresta dell’onda (Vaccari, a Bleckner, a Devendra Banhart). Quali sono le motivazioni che ancora oggi la spingono ad avere questo tipo di approccio?
Credo che questa storia delle linee-guida sia in realtà una limitazione, una cosa che vedi tu, ma a cui io non ho mai nemmeno pensato. Io cerco di rimanere sempre molto libero nel mio lavoro. Non accettando soggezioni di nessun tipo e non accettando il sistema politico – e come si sa, in Italia il sistema politico è dominante – ho sempre puntato alla totale libertà operativa. Il mondo dell’arte in generale è fatto di pettegolezzi, è tutto un “mi hanno detto” e un “mi hanno raccontato”, non è un mondo di vero lavoro, è un mondo popolato da tanti perditempo. Esistono personaggi di tutti i tipi in questo ambiente: c’è chi ha l’ambizione letteraria e poetica di fare una galleria, ma c’è anche chi ha l’ambizione di fare la pezza d’appoggio, di fare il critico, di fare la spia degli artisti. Ho conosciuto molti giovani critici che erano le spie degli artisti.

In che senso?
Le spie. Ascoltavano quello che uno diceva e poi lo andavano a riferire a modo loro. È tutto uno sparlare, non è un mondo divertente.

Cosa vuol dire fare il gallerista nel 2012? Quale la dimensione della galleria contemporanea?
Oggi il mondo è un grande paese e innanzitutto per lavorare in questo campo è necessario conoscere le lingue. Il mio limite, da questo punto di vista, è sempre stato quello di non voler imparare le lingue, dal momento che ho sempre avuto cose più importanti da fare. Cioè, per me era più importante leggere un libro di Dino Garrone o qualcosa con Carmelo Bene, che sono personaggi che all’estero nemmeno conoscono, oppure leggermi un libro di Gadda.
Per avere una galleria oggi bisogna possedere un’esperienza internazionale, avere un commercialista internazionale, perché sai benissimo che oggi in Italia non puoi lavorare. C’è la galleria di modernariato che lavora con i quadri degli altri o con i resti delle gallerie buone che sono, in pratica, i quadri che finiscono nei bauli delle macchine.
Io faccio un lavoro differente. Il problema è che chi ha una galleria in Germania, chi ha una galleria in Francia paga il 7% [di IVA, N.d.R.], noi invece paghiamo il 21%. Ti dico, un editore, quello che fa un normale giornale scandalistico, paga un’IVA del 4%, noi a vendere un quadro, anche quello di un giovane artista, paghiamo un’IVA immediata del 21% anche se la fattura magari ce la pagano dopo un anno.

Una galleria di livello internazionale in una città di provincia: pregi e difetti di questa situazione.
Ma sai, una galleria la puoi avere anche, che ne so, a Lampedusa. È il gallerista che fa la galleria. Io non mi muovo mai da qui, ma con il telefono sono in collegamento con tutto il mondo e in un secondo parlo con chiunque.
Oggi se hai una galleria in provincia, qual è il problema? Che se non sei in una capitale del mondo e non hai intrallazzi con i giornali, con la pubblicità, allora la gente non muove un passo per venire a vedere la tua mostra. Sai cosa mi dicevano gli intelletuali e gli artisti modenesi quando feci la mostra di Basquiat? “Mazzoli espone i negri”, mi dicevano. Non è venuto un critico d’arte a vedere quella mostra.
E ti voglio dire un’altra cosa di quella mostra: io quei quadri li ho venduti tutti e ho guadagnato il giusto, ma soprattutto ho fatto guadagnare chi li ha comprati. Posso tranquillamente dire che c’è stato qualche operaio che si è tenuto i quadri e che in questo modo s’è costruito la casa. Mi sembra bello che un gallerista riesca a far fare una casa a un operaio! E se Basquiat fosse stato vicino a me, sarebbe campato altri quarant’anni. In America è stato sfruttato e gettato in questo mondo di successo totale, e le sue debolezze gli sono state fatali. Lo hanno buttato via come uno straccio, un po’ la stessa storia che è successa a Tano Festa.

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Tano Festa – Dalle Tombe Medicee – 1965

Altro grande artista sfruttato e poi dimenticato…
Tano Festa avevano vergogna a vederlo! Si fermava in Piazza del Popolo a chiedere l’elemosina, e lo faceva per disprezzo nei confronti della società, passavano i suoi amici e lui voltava la faccia da un’altra parte. Perché rompeva le scatole, era un personaggio scomodo. Mi son trovato in diverse situazioni abbastanza problematiche quando c’era Tano Festa, perché andava in stazione a rompere i vetri e poi mi telefonava la polizia, io gli spiegavo che era un grande artista, andavo là, pagavo per i danni che aveva fatto e lo portavo a casa mia a dormire.

Un rapporto con gli artisti che non è solamente lavorativo, ma anche umano, dunque.
Io sono un omone ma ho una grande personalità, forgiata da giovane grazie alle parole di mia madre, che mi diceva: “Male non fare, paura non avere”. Ed io non ho mai avuto paura. Questa in parte è la mia filosofia di vita, la filosofia in base alla quale mi rapporto anche con gli artisti. Io mi ispiro a La Pira. La Pira parlava con le parabole del Vangelo, da ragazzo andavo ad ascoltarlo, rimanevo lì delle ore, e venivo a casa con una enorme saggezza. E i precetti di La Pira potevano essere applicati alle cose più d’avanguardia del mondo, perché la sua filosofia non aveva limiti. È il potere della semplicità. A me, una volta, mentre ero alla mostra Zeitgeist a Berlino, hanno detto: “Tu hai un potere immenso, ma parli la tua lingua, parli con il tuo accento, stai lì in mezzo agli artisti e non vai mai a una cena, non ti fai vedere”. Ma chi se ne frega! Chi se ne frega di andare alla Biennale di Venezia, andare in giro, parlare. Non me n’è mai importato niente!
A me è sempre interessato il rapporto con gli artisti, l’aspetto poetico e letterario del mio lavoro, e ho sempre cercato di fare in modo che il mio Paese fosse davanti agli altri. Grazie a Dio, con la Transavanguardia non siamo noi che siamo andati all’estero, ma sono gli altri che ci sono venuti a cercare. Poi, certo, hanno cercato di distruggerci, ma ti dirò che non ci riusciranno in mille anni!

Cosa ne pensa della situazione artistica odierna? So che non le interessa tutta la deriva neo-concettuale di moda oggi, non le piace Cattelan.
Tutti gli artisti contemporanei appartenenti a questa corrente neo-concettuale, tra cui appunto Cattelan, hanno fatto un’operazione interessante: hanno lavorato, probabilmente, sulla distruzione dell’arte, e ritengo che dopo questa distruzione debba per forza esserci una rinascita, che è la parte che a me interessa di più quando si tratta di arte. A me piace lavorare sul positivo, sull’affermazione. E poi, ad esempio, credo che ci siano stati artisti operanti a Milano negli Anni Novanta che sono stati puniti dal sistema, dalla critica istituzionalizzata, nonostante possedessero un talento al di sopra della media. Parlo di artisti del calibro di Carlo Benvenuto, Mario Dellavadova e Amedeo Martegani. Questo è un caso che la critica italiana dovrebbe avere sulla coscienza.

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Emilio Mazzoli con un’opera di Crewdson

Un gallerista tratta solo artisti e opere che vanno incontro al suo gusto personale, oppure deve puntare esclusivamente al profitto, all’investimento ad ogni costo?
Il gusto personale, se è un buon gusto, porta poi al profitto.

Farebbe mai una mostra su un artista che non le piace, ma di cui sarebbe sicuro del guadagno?
Ma neanche per idea! Però farei una mostra a un amico anche se fosse l’artista più scadente del mondo.

Qual è il più grande artista contemporaneo, diciamo da Courbet in poi?
Se dovessi fare un’analisi così ampia, diventerebbe difficile. Ogni periodo ha il suo artista.
Io del Novecento amo de Chirico, i futuristi, Sironi, Manzoni, Fontana, Burri. In campo internazionale partirei da Hopper in America, via via fino alla Pop Art e all’Espressionismo astratto. Bruce Nauman, Barnett Newman, Franz Kline, Jackson Pollock, solo per citare dei nomi.

L’artista con cui ha lavorato, o lavora, più volentieri?
Ho lavorato con grande passione con artisti che condividevano la mia stessa grande passione. Dovrei elencarne almeno una decina. Posso dire De Dominicis, Tano Festa, Schifano, tutti gli artisti della Transavanguardia. Ma non vorrei fare dei nomi per non creare dei dispiaceri o sottrarre meriti ad altri artisti con cui ho lavorato altrettanto bene.

Un’opera che vorrebbe nella sua collezione ma che non ha mai avuto occasione di comprare.
Non ho un desiderio in particolare. Le opere più belle che possiedo sono quelle che non riesco a vendere. Sono le opere che amo di più.

Il migliore affare della sua vita e la più grossa fregatura.
Fregature ne ho avute parecchie, anche da parte di colleghi ancora operanti sul mercato, di cui non faccio nomi, i quali spesso non mi pagavano le opere che gli vendevo. La più grossa soddisfazione non posso dirla, perché io i quadri li vendo in base a quanto li ho pagati, quindi a me basta prendere quello che guadagno.

Qual è la sua posizione nei confronti delle fiere d’arte?
Sicuramente negativo, perché quello che io propongo non è paritetico rispetto alla proposta delle altre gallerie. Tutte le volte che sono andato alle fiere, ci sono andato con l’idea di entrare in un museo. Tutte le altre gallerie, in generale, o almeno per il 95%, sono gallerie di modernariato, gallerie che trasportano quadri nei bauli delle macchine, e pur essendo gallerie valide, con una licenza valida, con un lavoro valido, non fanno il mio lavoro. Quando presento un lavoro, presento sempre la prima qualità.

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Il catalogo di Boetti e Paladino, 10 arazzi, edito dalla Galleria Mazzoli

Ne esce una visione piuttosto negativa del sistema artistico italiano. Come migliorerebbe questo stato di cose?
Quello che più mi dispiace è che oggi l’arte non fa più opinione, è passata in secondo piano rispetto ad altre cose, e questo perché non si cerca più di fare quanto si è fatto per molti secoli in Italia. Si deve dare più potere all’arte e creare leggi che permettano di commerciare in questo campo in maniera paritetica rispetto agli altri Paesi europei. Il sistema dell’arte italiano, ripeto, non è considerato da nessuno perché non fa opinione. Essendo pochissimi quelli che fanno il tipo di lavoro che intendo io, che sono poi le gallerie che hanno fatto la storia in Italia, viene fuori una differenza enorme tra una galleria seria e una che invece seria non lo è. C’è differenza tra una galleria che ti produce una mostra, che acquista dei lavori, che ha un rapporto primario con l’artista, e una galleria che ti vende cinquecento nomi tutti raccattati in giro. Sono due mestieri diversi.

E quindi, come bisognerebbe intervenire in questo campo?
Dividere le gallerie che fanno modernariato, e che quindi non intervengono direttamente nella produzione di un lavoro, da quelle che il lavoro artistico lo fanno nascere direttamente. Il lavoro nasce sempre dalla galleria.

Alessandro Marzocchi

www.galleriamazzoli.com

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #7

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Alessandro Marzocchi

Alessandro Marzocchi

Alessandro Marzocchi (Milano, 1986) è studente presso l’Università degli Studi di Parma, curatore e speaker radiofonico. Specializzato in arte contemporanea, da anni ha un conto aperto con La Mariée mise à nu par ses célibataires, même. Ha realizzato una serie…

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