Apologia del falso: alla National Gallery di Washington vanno in mostra le manipolazioni analogiche di “Faking It”, omaggio all’archeologia del tarocco. Mentre i codici di Photoshop diventano pezzi da museo

C’è il falso artistico dei surrealisti e quello ideologico, che puntava a deviare la memoria della realtà dall’effettiva portata degli scontri avvenuti durante l’esperienza della Comune di Parigi; e c’è, nella satira dada di John Heartfield, la sintesi delle due cose: felice manipolazione analogica dell’immagine. Taroccata, raggirata, rivisitata ad arte: nella pluralità di significati che […]

C’è il falso artistico dei surrealisti e quello ideologico, che puntava a deviare la memoria della realtà dall’effettiva portata degli scontri avvenuti durante l’esperienza della Comune di Parigi; e c’è, nella satira dada di John Heartfield, la sintesi delle due cose: felice manipolazione analogica dell’immagine. Taroccata, raggirata, rivisitata ad arte: nella pluralità di significati che il concetto può esprimere. Dopo un primo passaggio al Metropolitan e prima dello show estivo al Museum of Fine Arts di Houston, arriva alla National Gallery di Washington Faking It, la prima mostra esplicitamente dedicata al falso fotografico. Una storia che parte con la nascita del mezzo, perché i primi rudimentali fotomontaggi risalgono agli Anni Quaranta del XIX secolo; e che si spinge – attraverso l’esperienza dei vari Yves Klein – fino alla fine degli Ottanta: quando uno studente dell’Università del Michigan decide di elaborare un sistema per “colorare” le immagini sul suo Macintosh Plus, drammaticamente in scala di grigi. Thomas Knoll inventa un software chiamato Display; altri sei mesi di lavoro e il giochino si trasforma in Photoshop. E il cerchio si chiude. Perché il codice della sua versione 1.0, commercializzata nel 1990, entra da oggi ufficialmente nella ricchissima collezione del Computer History Museum della californiana Mountain View, nel cuore della Silicon Valley; una raccolta forte di circa 50mila oggetti di antiquariato tecnologico e centinaia di gigabyte in software originali. E considerato che il nonno di Photoshop è scaricabile liberamente dal sito del museo, chissà che qualche artista di nuova generazione non si diverta a farne strumento per la propria creatività. Considerati i costanti ritorni di fiamma per Polaroid, Holga e varie altre macchinette fotografiche, c’è spazio anche per i nostalgici del fotoritocco di una volta.

 – Francesco Sala

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