Le fashion week digitali e il caos che verrà

Come sta reagendo la moda all’onda lunga della pandemia? E come vorremo vestirci in futuro? Le riflessioni di Aldo Premoli.

Le Camere Moda di Milano e Parigi solo pochi giorni fa hanno rassicurato che le presentazioni delle collezioni torneranno a essere quelle di sempre già a partire dal prossimo settembre. La politica degli annunci fa pensare però che qualcosa non stia andando per il meglio. E in realtà non potrebbe essere diversamente: chi dice come stanno davvero le cose indica una possibile normalizzazione del settore a non meno di 18 mesi: Pitti immagine ad esempio salta tutto il secondo semestre di presentazioni 2020 e punta direttamente al 2021.
La prima fashion week digitale è stata quella di Shanghai dello scorso aprile: ha agganciato oltre 11 milioni di telespettatori e venduto 2,8 milioni di dollari in merce durante i live streaming trasmessi su Tmall, la piattaforma di e-commerce del gruppo  Alibaba. Ma la Cina per numeri assoluti e attitudine al consumo non è in alcun modo paragonabile all’Europa o agli Usa. E difatti la fashion week digitale voluta dal British Fashion Council a Londra non è riuscita ad attirare un’attenzione significativa, esattamente come accaduto per quella di New York.
Pure quella che ha preso il via il 6 giugno a Parigi con la couture arranca e un esito del genere è facilmente prevedibile per la presentazione delle collezioni maschili che arrivano immediatamente a seguire. Le sfilate parigine fanno parte di una più ampia transizione del settore verso l’online attuato attraverso partnership con piattaforme come YouTube, Google, Instagram e l’agenzia cinese Hylink che collabora con WeChat, Weibo e Little Red Book.
Il video è il media con cui tutti i partecipanti si devono misurare. Le guide line diffuse dalla Federation de la Haute Couture et de la Mode prevedono l’invio di un filmato non superiore ai 20 minuti per presentare collezioni, progetti precedenti o semplicemente esprimere la creatività del marchio. La piattaforma include, oltre alla sezione calendario con i video di 32 presentazioni, una sezione magazine e un’altra dedicata agli eventi dove vengono offerti dibattiti e concerti.

STILISTI E PANDEMIA

Ma se un’intervista come quella di Iris van Herpen si rivela di un qualche interesse, fuori sintonia rispetto al momento appaiono i concertini sulla scalinata del Palazzo della Civiltà italiana a Roma o gli svolazzi chilometrici di tessuto montati in video parecchio noiosi. Su questa piattaforma in ogni caso si sono disciplinatamente allineati Chanel, Dior e Louis Vuitton per la couture. Ma ciò che questo intero esperimento digitale alla fine ha rivelato è che, sebbene musica e film usino la moda per i loro scopi ormai da decenni, invertire l’equazione non funziona davvero. Nemmeno quando a fabbricare il tutto si cimenta un grande regista, come ha fatto Dior con Matteo Garrone. Non giova l’ammucchiata di sirene, narcisi, satiri, fattorini e ninfe che vivono solo per indossare abiti di lamé  cappotti svolazzanti e nuvole di chiffon.
Per le collezioni uomo Louis Vuitton, Loewe, Dior Homme, Dries Van Noten, Berluti, Hermès e Lanvin. Hermès ha messo in scena un’esibizione dell’artista Cyril Teste, dal vivo il 5 luglio senza pubblico, per una trasmissione programmata poi il 12 luglio. Olivier Rousteing per Balmain ha incaricato Andrew Makadsi, il direttore artistico dei video di Beyoncé, di registrare lo spettacolo messo in scena su uno yacht all’inizio di luglio; il video (che include tanto pezzi d’archivio che creazioni recenti) è parte del programma degli show parigini seppure in ritardo con le date ufficiali della couture. Lo stilista mostra la sua collezione uomo insieme a quella donna a settembre. Assenti invece Givenchy, Acne Studios, Ami e Valentino. Givenchy ha giustificato la rinuncia con la recentissima nomina di un nuovo designer, Demna Gvasalia; Valentino con la decisione di mostrare la collezione uomo insieme a quella donna a settembre; gli Acne Studios dichiarano di aver venduto la collezione tramite e-commerce.
Per i designer che non lavorano alle dipendenze delle conglomerate del lusso la presentazione digitale solleva una sfida aggiuntiva, ma al tempo stesso offre l’opportunità di raggiungere un nuovo pubblico. Per tutti indifferentemente gli impedimenti determinatisi costringono a esplorare nuovi modi di mostrare le collezioni. Jonathan Anderson ha presentato la sua collezione il 2 luglio sul sito e sull’account Instagram del marchio. 12 minuti girati dietro la scrivania del suo ufficio, durante i quali ha spiegato l’ispirazione per le sue creazioni, mostrando illustrazioni alla telecamera.

FASHION E RESILIENZA

Milano è pronta a cimentarsi con il digitale a partire dal 14 luglio. Dolce&Gabbana lo faranno addirittura nel campus dell’Ospedale Humanitas. Ma cosa significhi in realtà tutto questo non lo sa nessuno. Tutto appare straordinariamente confuso. Ne usciremo? Di certo c’è che il “motore della moda” sta cambiando marcia: il settore ha sempre dimostrato una straordinaria resilienza e ancora una volta i suoi protagonisti sono pronti a tutto. L’angoscia per la necessità di cambiamento imposta dalle rovine provocate dal maledetto virus è evidente: qualcuno, dopo quanto successo, vorrà ancora dedicarsi allo shopping? Forse però non è questa la domanda da porsi: dovremmo invece chiederci che cosa vorremo indossare in futuro. Sembra ridicolo: chi se ne frega di cosa indosseremo dopo tante tragedie e le possibili devastazioni economiche in arrivo, ma alla radice di questa domanda sta la riflessione sulle nostre identità post-crisi.
Così come i white collars non torneranno più alla vecchia vita d’ufficio, allo stesso modo non assegneranno più al due pezzi il valore che rappresentava nell’ordine sociale, reale o immaginato che fosse. È inoltre probabile che svilupperemo una avversione per le uniformi del nostro isolamento e della nostra impotenza: vederle ci farà precipitare inconsciamente nel tunnel psicologico della pandemia. Potremmo al contrario avere voglia di qualcosa che ci faccia dimenticare ‒ almeno un po’ ‒ tanta tristezza. La moda è creata per il futuro e implica fiducia in quel futuro. Se un capo acquistato diventa simbolo personale di un cambiamento di stato, allora non è più un acquisto fine a se stesso, da buttare via poco più tardi. L’abbigliamento finalmente seasonless potrebbe tenere fermo il suo valore: essere indossato ma anche riutilizzato. Magari venduto e rivenduto (qualcosa del genere del resto sta già avvenendo tra i componenti della Gen Z). Il che potrebbe significare che verranno fabbricati e acquistati meno capi, quindi una contrazione dei volumi che avrà un impatto sui produttori, a breve termine senza dubbio doloroso. Ma a lungo termine potrebbe aiutare a risolvere il problema della sostenibilità.
Uno shock significativo spesso accelera, in modo esponenziale, le macro tendenze che precedono il suo arrivo.

Aldo Premoli

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Aldo Premoli

Aldo Premoli

Milanese di nascita, dopo un lungo periodo trascorso in Sicilia ora risiede a Cernobbio. Lunghi periodi li trascorre a New York, dove lavorano i suoi figli. Tra il 1989 e il 2000 dirige “L’Uomo Vogue”. Nel 2001 fonda Apstudio e…

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