La Cina e l’urbanizzazione. Intervista a Michele Bonino

Visitabile fino al 10 ottobre al MAO ‒ Museo d’arte orientale di Torino, il progetto espositivo “China goes Urban. La nuova epoca della città” ricostruisce l’inurbamento e l’espansione urbana in Cina a partire da quattro casi studio.

Professore Associato di Progettazione Architettonica e Urbana e Vice Rettore per le Relazioni con la Cina al Politecnico di Torino, l’architetto Michele Bonino è uno dei curatori di China goes Urban. La nuova epoca della città. La mostra, esito di una ricerca pluriennale condotta dall’ateneo piemontese direttamente sul campo, ovvero nelle new town cinesi Tongzhou, Zhaoqing, Zhengdong e Lanzhou, sgombra il campo da pregiudizi e valutazioni sommarie. Piuttosto l’espansione urbana cinese diviene l’espediente per indagare limiti, contraddizioni e potenzialità dei modelli di città contemporanea in ascesa nel grande stato asiatico.
Quattro i macro-ambiti presi in esame: i processi di urbanizzazione, i frammenti urbani, le infrastrutture e il rapporto urbano/rurale. A qualche mese di distanza dalla curatela di Eyes of the City, una delle due sezioni della Biennale di architettura e urbanistica di Hong Kong e Shenzhen del 2019, abbiamo incontrato Bonino per una conversazione su China goes Urban.

INTERVISTA A MICHELE BONINO

Quello delle new town è un fenomeno ricorrente nella storia dell’umanità. Osservandolo dalla prospettiva cinese si può evidenziare un interesse da parte del governo centrale nell’individuazione di modalità che possano sanare situazione di disparità e disuguaglianze, sia sociale sia territoriale?
Credo che il tema principale, parlando di scelte del governo cinese legate all’urbanizzazione, sia quello di usare le new town come elemento di regolazione delle migrazioni. Di fatto stiamo assistendo alla massiccia migrazione di persone dalle campagne alla città, che negli ultimi quarant’anni ha registrato una media di sedici milioni in arrivo dalle aree rurali alla ricerca di opportunità e di una vita migliore. In questo arco temporale vari modelli di new town hanno regolato e assecondato questo flusso: la mostra si concentra su quanto avvenuto negli ultimi anni.

Ovvero?
Proviamo a dare alcuni esempi. In Cina ci sono new town, che potremmo definire “città satellite”, sorte attorno a città esistenti come Pechino o Shanghai: di fatto, sono loro estensioni. Sono nate, in particolar modo, per riuscire a dare una residenza a chi era alla ricerca di una destinazione urbana e non riusciva a trovarla ufficialmente. Nel Paese esiste un sistema amministrativo basato su una sorta di doppio passaporto, che definisce gli abitanti come cittadini urbani o rurali. Ottenere il passaporto urbano in una città come Pechino o Shanghai è ormai impossibile. Quindi queste new town sono sorte per dare sfogo a tale richiesta di migrazione. A tale tipo, fra i quattro analizzati dalla mostra, appartiene Zhengdong, basata su un piano urbanistico molto ambizioso di Kishō Kurokawa.

E il secondo modello?
Vi appartiene Lanzhou, fra gli esempi in mostra, che è esattamente “la città spuntata dal nulla”. Anzi, nel caso specifico, per fare spazio alla griglia urbana, sono state tagliate delle montagne. In questo caso, si è scelto di indirizzare la migrazione dalle campagne verso una delle zone meno abitate della Cina, spostando così il flusso dalle aree vicine alla costa, che includono Pechino, Shanghai o Canton e sono molto sotto pressione. Si è cercato di convincere la popolazione a raggiungere e insediarsi nei territori interni, che probabilmente saranno il futuro dell’urbanizzazione cinese in una prospettiva di bilanciamento di traffico, inquinamento e pressione sul territorio.

Nuovi edifici con aeroplano, 2019, Tongzhou New Town, Pechino, municipalità di Pechino. Photo © Samuele Pellecchia

Nuovi edifici con aeroplano, 2019, Tongzhou New Town, Pechino, municipalità di Pechino. Photo © Samuele Pellecchia

LE NEW TOWN CINESI

A livello di pianificazione urbana e di forme di insediamento abitativo, si possono rilevare analogie fra i due modelli?
C’è un primo livello di struttura generale simile che, almeno al momento, è riconducibile a griglie urbane estremamente organizzate. In Cina c’è un rapporto molto fluido tra potere pubblico ‒ le nostre amministrazioni ‒ e developer immobiliari: le grandi aziende di costruzione sono anch’esse legate al pubblico e, di conseguenza, i masterplan delle città assumono una forma molto organizzativa, in grado di agevolare infrastrutturazione e costruzione molto rapide. Questa maglia urbana, non così dotata a livello di innovazione, è abbastanza ricorrente. Molto diversi, invece, sono gli esiti architettonici.

Che cosa intende?
Se nelle città come Zhengdong assistiamo a fenomeni marcati legati al fabbisogno abitativo, nelle altre si fa leva sul grande simbolismo architettonico. Ovviamente le abitazioni non mancano, però sono più sottotono: quello che è emerge, nel panorama ad esempio di Lanzhou, sono gli “edifici simbolo”, progettati per attrarre verso questi luoghi, altrimenti percepibili come inospitali. Assistiamo quindi alla costruzione di musei particolari o infrastrutture da record. A Lanzhou, addirittura, troviamo un parco divertimenti che riproduce in scala 1:1 i principali monumenti del mondo occidentale: dal Partenone alla Grande Sfinge di Giza. In queste città, dove di fatto è più difficile attirare persone e investitori, si punta molto sull’immagine dell’architettura, che diviene una “forma di richiamo”. Il paesaggio urbano, di conseguenza, cambia.

Uno degli obiettivi della mostra è far notare, anche a un pubblico non specialistico e più in generale occidentale, che le new town cinesi non costituiscono un’eccezione o qualcosa che non ci riguarda. Dunque cosa potremmo apprendere da questi processi?
È chiaro che, soprattutto a livello di numeri assoluti, l’urbanizzazione cinese è diversa da qualsiasi altra esperienza rilevabile alle nostre latitudini: già solo il fatto che ogni anno si spostino verso le città 16 milioni di abitanti rende l’idea. Dunque, in termini assoluti, è qualcosa di mai visto; in termini relativi, però, la Cina non sta facendo altro che allinearsi al nostro modello di modernità. Noi abbiamo raggiunto quota 75% della popolazione che vive in città e in questo modo abbiamo rappresentato la nostra idea di “nazione moderna”. La Cina sta facendo lo stesso ora e, secondo le previsioni, arriverà ai medesimi livelli di Europa e Stati Uniti; poi, probabilmente, sarà la volta di Paesi nel continente africano. È un trend assolutamente paragonabile a qualcosa che già conosciamo, come conferma il sottotitolo della mostra, ovvero La nuova epoca della città.

Cosa imparare, dunque da tutto questo?
Ad esempio il fatto che si tratta di città-infrastruttura: in Cina lo sviluppo urbano è guidato dalle reti, siano esse visibili, come autostrade e ferrovie che risultano essere pienamente sviluppate anche grazie a un centralismo statale molto forte, siano esse non visibili, ovvero nel sottosuolo, come le metropolitane. E poi ci sono le reti informatiche, che sono totalmente dominanti nell’urbanizzazione cinese. Queste nuove città hanno un grado altissimo di digitalizzazione. L’interazione fra queste tre reti è il sistema da guardare con attenzione.

China Goes Urban. Exhibition view at MAO - Museo d'Arte Orientale, Torino 2021. Photo © Samuele Pellecchia

China Goes Urban. Exhibition view at MAO – Museo d’Arte Orientale, Torino 2021. Photo © Samuele Pellecchia

LA MOSTRA AL MAO DI TORINO

Questi principi stanno ispirando anche nuovi processi urbani oppure già si assiste, in un certo senso, al loro superamento?
La nostra mostra fa riferimento a un lavoro di ricerca che è iniziato alcuni anni fa e che ci ha permesso di seguire la costruzione delle quattro new town scelte sul campo. Il risultato è un lavoro molto recente e aggiornato, perché abbiamo esaminato queste città in rapida costruzione fino a quanto la pandemia non ci ha bloccato. Tuttavia va rilevato che sono new town concepite politicamente a metà degli Anni Dieci: oggi, nel Paese, si sta affermando un nuovo modello voluto da Xi Jinping, che è entrato al potere nel 2012. Quindi fra tre o cinque anni si vedranno i risultati di questa ulteriore nuova idea di città, fondata su una bassa densità, sul rapporto diretto con la produzione agricola e più integrata con la natura. Si prospetta come più innovativo e potrebbe riscuotere maggiore interesse anche nel resto del mondo. Vedremo: speriamo possa essere al centro della nostra prossima mostra, fra pochi anni.

Concentrandoci sulla mostra allestita al MAO, BTTstudio, che ha curato l’allestimento, ha introdotto un sistema che consente di coniugare l’esperienza di visita fisica con la sempre più pressante richiesta di sicurezza individuale rispetto al rischio di contagio. Ci descrive i dispositivi adottati nel percorso espositivo?
Il merito va riconosciuto a BTTstudio, che si è aggiudicato il concorso indetto per l’allestimento. All’epoca non era prevista questa sperimentazione, ma con la pandemia si è scelto di sviluppare un sistema in grado di garantire la sicurezza dei visitatori. A livello tecnologico sono stati impiegati materiali già a disposizione sul mercato. L’innovazione sta nel voler sensibilizzare il pubblico a cosa può voler dire accedere agli spazi culturali in questo momento storico. Lungo il percorso della mostra sono presenti tre varchi, nei quali altrettanti sensori rilevano il grado di affollamento della sala, avvisano i visitatori e per compensare l’attesa forniscono, direttamente sullo smartphone, contenuti aggiuntivi altrimenti non veicolati. È come se alle dieci sale della mostra, in precise condizioni, ne venissero aggiunte tre che diluiscono la pressione del pubblico, dandogli l’occasione per accedere a ulteriori dati. Un meccanismo molto semplice, che consideriamo come uno stimolo interessante per iniziare a ripensare le modalità di approccio ai luoghi espositivi.

Valentina Silvestrini

www.chinagoesurban.com

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Valentina Silvestrini

Valentina Silvestrini

Dal 2016 coordina la sezione architettura di Artribune, piattaforma per la quale scrive da giugno 2012, occupandosi anche della scena culturale fiorentina. È cocuratrice della newsletter "Render". Ha studiato architettura all’Università La Sapienza di Roma, città in cui ha conseguito…

Scopri di più