Ritorno al colore. La nuova ricerca artistica di Michele De Lucchi

È una nuova ricerca grafica e plastica quella intrapresa da Michele De Lucchi. L’architetto espone a Napoli alla Galleria Trisorio una collezione di piccole casette e di disegni dove fa la sua comparsa, o meglio ricompare, il colore. Ne abbiamo parlato con lui

Michele De Lucchi (Ferrara, 1951) inizia questa conversazione sulla sua nuova ricerca artistica impugnando un pastello bianco. Indossa un grembiule macchiato di tempera, gli occhi fissi sul foglio colorato che tiene sulle ginocchia, e parla in maniera pacata mentre conduce la matita che sembra seguire le sue parole. Lo interrompiamo in una di quelle mattine che si è faticosamente ritagliato per “lavorare da solo”. In sottofondo le note di Chopin, una tazza di mate argentino sul tavolo.

Torni a Napoli dopo il lavoro di riallestimento della sede delle Gallerie d’Italia in via Toledo. Questa volta porti in città una raccolta di piccole casette scolpite con la motosega e cinquanta disegni a tecnica mista. La tua urgenza espressiva si concretizza nel disegno: quale significato ha per te in questo momento?
Parlare di disegni è cruciale in questo momento della mia vita, anche se sto ancora cercando di capire perché e che significato abbia questa urgenza di ritornare alla carta. Ho fatto casette e lavorato il legno instancabilmente sino a sei mesi fa; poi ho abbandonato la motosega e mi sono messo a disegnare e a dipingere. Mi sono detto “basta motosega, ora prendo matite, colori e pennelli”, ma una spiegazione in realtà la sto ancora cercando. Diciamo che mi aspetto di scoprire qualcosa di più su di me proprio disegnando.

(Intanto la punta della matita si spezza, De Lucchi la guarda, chiude gli occhi dispiaciuto, “Sapevo che questa non sarebbe durata a lungo”. Sospira e intaglia il pastello con gesti rapidi e decisi, libera la mina e fa scivolare il residuo in una scatolina di legno. Non usa mai il temperino)

Che cosa stavo dicendo?

Dicevi che stai cercando una spiegazione del perché in questo periodo senti il bisogno di disegnare. Grafica e plastica ti hanno sempre aiutato a riflettere su qualcosa di più ampio, dove ti conduce questo esercizio?
Io mi interrogo spesso su quello che faccio, sulla differenza tra essere artisti o architetti. Quando fai l’artista, hai come giudice solo te stesso e tutto quel che fai, sei tu stesso che decidi. Quando fai il designer, i tuoi giudici sono l’azienda e il mercato. Da architetto invece non hai soltanto come giudice te stesso, l’industria e tutti gli annessi, ma devi considerare anche coloro che si trovano improvvisamente in strada una costruzione che a loro non interessa, non serve, non produce vantaggio. Poi hai di fronte un giudice etico-morale, che valuta quello che fai in base ai parametri della sopravvivenza dell’uomo sul pianeta. Il disegno in qualche modo mi aiuta a ragionare su questa terza attività e a tenere insieme tutte le altre. Fare l’architetto non è semplicemente un impegno tecnico costruttivo, è molto di più: devi saper giustificare quello che fai agli occhi di tutti, in un mondo dove chiunque ha la possibilità di trasformarlo. Scolpire o fare disegni mi serve per mettermi in una posizione nella quale mi riconosco e mi interfaccio con chi valuta il mio lavoro. L’arte mi aiuta a inseguire questo ragionamento, è un processo per darmi delle risposte, o meglio, per inseguire delle domande.

Michele De Lucchi mentre disegna nel suo studio ad Angera. Photo Cristina Moro

Michele De Lucchi mentre disegna nel suo studio ad Angera. Photo Cristina Moro

IL DISEGNO SECONDO MICHELE DE LUCCHI

Quelle che disegni, quindi, come anche le casette che scolpisci con la motosega, non sono necessariamente architetture che realizzerai o che vorresti costruire, sono piuttosto quesiti aperti su cui vuoi ragionare.
Esatto, sono esercizi per me stesso, con due prospettive differenti. Lavorare il legno e fare sculture è un’attività che percepisco come più conclusiva, perché quando fai una scultura hai un oggetto che conclude un processo. Quando disegno, invece, inizio qualcosa che rimane più aperto, più trasformabile, mi piace dire anche più vulnerabile. Così riesco a tenere aperti più argomenti, più pensieri, più riflessioni. Quando hai un disegno davanti puoi strutturare la tua strategia di ricerca molto più lentamente rispetto a quando sei in un laboratorio di falegnameria, dove devi stare anche attento a non farti male.

Come lavori quando disegni, hai un metodo o improvvisi?
(Si passa le mani sul grembiule, si rimbocca le maniche della camicia, continua a disegnare)
I disegni li realizzo con un metodo che ho imparato da mio fratello, che fa il pittore. Mi siedo e appoggio il foglio di carta su una tavola in legno, che tengo sulle ginocchia: così preparo il fondo colorato, con il pennello. Poi, io sono insaziabile e quindi inizio tanti fondi contemporaneamente; li preparo, li fermo con degli elastici sul pezzo di legno e li appoggio, non conclusi, sul mio tavolo, sui ripiani della libreria e sulle mensole del mio studio. Restano lì a guardarmi, o sono io che guardo loro. Non li finisco volontariamente, perché vorrebbe dire concludere il ragionamento, e io non l’ho ancora risolto. Disegnando, rendo più efficiente questo processo di pensiero attorno al senso di fare architettura, arte e design.

Nei disegni che porti a Napoli compare improvvisamente il colore, che si allontana però dalle cromie acide e pastello che usavi negli Anni Ottanta con il gruppo Memphis. Le tinte sono calde, piene, riempiono le opere di luce pacata. Cos’è successo? Come mai il colore è tornato nelle tue opere mature?
Il colore è come un ponte, che mette in comunicazione aspetti e momenti diversi della stessa realtà. I ponti sono sempre costruiti sul posto, nel senso che sono sempre efficienti rispetto a una condizione precisa, che può essere fisica, di due sponde, ma può essere anche psicologica, mentale. In questo momento il colore è anche un ponte tra un’epoca storica tragica, che ci ha coinvolti da vicino, e un nuovo mondo che sta venendo fuori e ci spaventa molto, fatto dalla guerra e dalla rabbia che serpeggia e che è sempre pronta a esplodere. La mia reazione è illuminare con il colore questi disegni alla ricerca di una risposta positiva, come mi impegno a fare per le mie architetture, per cercare una visione del mondo qualitativamente migliore. Penso al concetto di omeostasi, che è l’istinto degli organismi a cercare sempre la condizione migliore per la sopravvivenza, il conforto, la sicurezza fisica e mentale. Ecco, il colore per me è come l’omeostasi, una ricerca di autoregolazione, di sicurezza.

Da come insisti sulle trame con cui riempi i volumi sul foglio e per la maniera con cui ti predisponi a lavorare – il grembiule, la musica, le tende scostate – si direbbe che disegnare sia quasi un momento terapeutico per te.
(Michele De Lucchi continua, senza alzare gli occhi, a riempire le linee curve con cui ha delineato le architetture con infiniti tratti bianchi, come una fitta trama ordinata)
Questo è un discorso che mi piace molto, perché per me disegnare è proprio un’esigenza. Le nostre azioni hanno mediamente un 20 per cento di coinvolgimento razionale e un 80 per cento di azione inconsapevole. Non per ingenuità, ma perché la mente umana è fatta da uno strato di attività controllato e una grande quantità sommersa di attività non controllata, che è il nostro grande tesoro, la nostra potenzialità: è dove possiamo trasformare noi stessi e la realtà nella quale viviamo, perché è tutta quella conoscenza che è parte di noi che noi diamo per scontata, che deriva dalle abitudini, dalle convenzioni, dalle esperienze personali. Tutto quello che riempie questo grande sacco che ci portiamo dietro e che non sveliamo nemmeno a noi stessi. Disegnare, scolpire, fare arte vuol dire immergersi in questo subconscio e scandagliarlo, investigarlo in tutti i sensi, nel subconscio personale ma anche in quello collettivo, perché molto di quello che facciamo deriva dall’accettazione di un parere collettivo che non mettiamo neppure in discussione.

(In sottofondo parte la Polacca n. 6 di Chopin)

Le Casette delle pezzentelle, nell'esposizione a Santa Luciella ai Librai in occasione di Edit Napoli. Photo Max Rommel

Le Casette delle pezzentelle, nell’esposizione a Santa Luciella ai Librai in occasione di Edit Napoli. Photo Max Rommel

MICHELE DE LUCCHI IN MOSTRA A NAPOLI

Una volta finiti, tendi a fissare i disegni alle pareti con una puntina. Li appendi tutti vicini, come le tessere di un mosaico.
Forse la veduta d’insieme mi aiuta a fare chiarezza. Le idee originarie di questi disegni nascono da una serie di tentativi che faccio su quelli che io ho battezzato “carta da tasca”, fogli A4 divisi a metà, cioè in A5, rigorosamente a mano, che tengo nelle tasche della giacca o dei pantaloni. Accumularli e osservarli tutti assieme fa parte di un processo di comprensione. Quando disegni fai scelte consce, ma qualcosa viene fuori anche mentre la matita scorre: io cerco di fare uscire quel qualcosa.

Le tue casette ospitate nella Chiesa di Santa Luciella ai Librai durante Edit Napoli hanno una dimensione più piccola rispetto alle tue altre opere in legno. Da che cosa dipende questo passaggio di scala?
Napoli mi stupisce sempre, è come una scena teatrale: c’è l’architettura e c’è il popolo che la abita, è difficile leggerla per chi viene da fuori, è una città contraddittoria, ha innumerevoli volti. C’è la Napoli dove hai il timore di camminare e c’è la Napoli in cui inventano un culto per cui le persone si prendono cura delle anime abbandonate, quello della Chiesa di Santa Luciella, un culto che mi ha lasciato senza parole. Le mie casette, in napoletano “casarelle”, qui dialogano con queste anime: non possono essere grandi perché devono essere agili e trasportabili nel mondo dell’aldilà. Simbolicamente, il senso è quello: offrire una casa a persone che non avevano un luogo a cui appartenere, perché erano vagabondi. La casetta è emblema del focolare e rinforza il senso di identità, anche attraverso il colore.

Ancora una volta, la Galleria Antonia Jannone ti accompagna, con l’ospitalità dello Studio Trisorio, in questo viaggio per raccontare il colore. Mi sembra simbolico presentarlo in una città radiosa come Napoli, affiancato da una gallerista profondamente legata a questa città. Quando è iniziato il vostro rapporto?
È iniziato tantissimi anni fa, ci ha presentati Ettore Sottsass. Antonia ha lasciato Napoli per trasferirsi a Milano, e qui è stata la prima a credere e raccogliere attorno alla sua galleria gli architetti che hanno fatto del segno grafico parte della loro capacità di esprimersi, di lavorare e di riflettere. Ha saputo vedere il pensiero degli architetti come espressione artistica, ha portato a Milano il suo fiuto e la sua tenacia partenopea.

(Con la matita insiste sulle fitte tacche che traccia con la matita bianca in maniera ritmica e con cui riempie i profili delle architetture disegnate sul foglio colorato. Interrompe il silenzio, ma non il disegno, per un’ultima riflessione)

Perché li faccio? Sicuramente mi piace un sacco. E inizio a pensare che esca qualcosa del mio passato. Mio padre faceva i tappeti, dormiva male e di notte si metteva a intrecciare i fili. Fare il tappeto era un sistema terapeutico, come per me il disegno, ma è difficile capire se la testa la voglio svuotare o riempire. La mente è un animale strano, è come una foglia che cade, galleggia nell’aria, fluttua ondulando e lentamente si abbassa. Quando disegno seguo la foglia, ma non so dove si posa.

Ci allontaniamo per non disturbare questa mattinata ritagliata sull’agenda con tanta fatica. Continua a lavorare, con gesti misurati, apre i vasetti di tempere e appoggia le tavolette di legno ai ripiani. Dalla finestra dello studio, un picchio dalla testa rossa saltella tra le foglie, sotto gli alberi di cachi che iniziano a imbrunirsi. Forse abbiamo capito da dove prende i colori.

Cristina Moro

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