Poltrone, spoil system e cultura. Un problema di visione politica del Governo

L’attuale esecutivo rivendica la volontà di “conquistare” la cultura, ma rischia di aver fretta di cambiare le cose. Anche a costo di penalizzare l’efficienza delle organizzazioni culturali

La recente vicenda, piuttosto burrascosa e di non ottimo gusto che ha visto protagonista il Centro Sperimentale di Cinematografia di Cinecittà (con un emendamento, il Governo Meloni ha anticipato di due anni la fine del mandato del Cda e del comitato scientifico del Csc, attribuendosi maggiori poteri per le nomine che verranno), dovrebbe far riflettere sulla tendenza, sempre più evidente, e sempre più sottolineata anche dal dibattito pubblico, a un percorso di ramificazione politica del governo all’interno delle istituzioni culturali.
Nulla di nuovo: è un atteggiamento reiterato da tutti i governi, che con questo è divenuto più visibile. Per un motivo semplicissimo. Da subito il Governo ha dichiarato di voler conquistare la cultura. Bene. E che avrebbe modificato la struttura di potere a essa correlata. Bene. E questo significa, banalmente, che ci vogliono più cambi al vertice rispetto a un governo che invece intende mantenere lo status quo.

Se il Governo agisce sulle organizzazioni culturali anche a rischio dell’efficienza delle stesse, allora significa che tale efficienza non ne rappresenta la priorità

Cultura e governance: una questione di metodo

Per quanto tutti facciano a gara a condannarla, questa pratica è presente in quasi tutti i settori economici che prevedono anche un intervento statale. E, nelle more della trasparenza, della correttezza, dell’intelligenza e dell’efficacia e dell’efficienza della gestione della cosa pubblica, può anche essere una pratica utile.
Chiunque sia chiamato a svolgere un ruolo di responsabilità vuol poter contare su una squadra che gli consenta di svolgere quel ruolo nel migliore dei modi, con la quale condivida delle premesse operative e che quindi implementi le decisioni in modo non conflittuale. Semplice.
Non è la conquista delle poltrone, dunque, il problema.
Il problema è piuttosto il sospetto che questo tipo di manovra non sia costruito sulla base di un processo di sviluppo. La trasformazione di una governance non è un’operazione proprio semplicissima. La previsione di nomine di diretta emanazione politica non è un passaggio di poco conto. Non si tratta soltanto di politica, ma della capacità di un’organizzazione di poter garantire una continuità operativa che va necessariamente tutelata. Anche tra le imprese più piccole, i processi che riguardano le modifiche di governance richiedono sempre un processo transitorio che consenta una progressiva affermazione della cultura organizzativa. Tutto ciò pare invece essere escluso dal modo con cui questo passaggio è accaduto.

Bisognerebbe dare potere alla cultura. Non la cultura al potere

La visione politica della cultura in Italia

Il problema, dunque, non è di libertà espressiva. Non è, o quantomeno non è soltanto, un problema di natura politica. Il problema è piuttosto un processo che privilegia una visione politica che riflette un ruolo ben limitato per la nostra cultura. Il nostro sistema culturale proviene da un’era Franceschini, piuttosto lunga. La stabilità di questo sistema quindi lascia ben immaginare che nel tempo, l’ex Ministro ha avuto modo di identificare, per tutte le più importanti posizioni della cultura, delle persone su cui potesse contare.
Quindi la fretta con cui opera il Governo è tendenzialmente comprensibile, sebbene divenga molto meno condivisibile quando tale fretta rischia di mettere a repentaglio il corretto funzionamento, e l’implementazione di strategie di lungo periodo.
Proviamo a essere più schematici: se il Governo agisce sulle organizzazioni culturali anche a rischio dell’efficienza delle stesse, allora significa che tale efficienza non ne rappresenta la priorità.
E se l’efficienza delle nostre organizzazioni culturali non rappresenta la priorità del governo, allora si corre il rischio di vedere annullati anni di progressivo miglioramento della capacità di autofinanziamento delle organizzazioni culturali. E questo significa maggiore dipendenza, non soltanto politica, ma anche economica, dal Settore Pubblico.
Bisognerebbe dare potere alla cultura. Non la cultura al potere.

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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