La scomparsa del pubblico. Editoriale di Leonardo Caffo

Cosa ci sta insegnando la pandemia a proposito del pubblico e, più in generale, della relazione con l'altro? E soprattutto: se mai tutto tornerà alla “normalità”, vogliamo davvero ripristinare le dinamiche precedenti? Una riflessione del filosofo e curatore Leonardo Caffo.

Mentre termino la mia ennesima lezione settimanale su Zoom, molti dei miei studenti hanno la telecamera spenta: mi chiedo ancora una volta verso chi, a quale volto, sia stata diretta la mia voce. Se sto producendo archeologia o forma di una voce e suono vivente. Qualcosa che vibra, come può vibrare soltanto una relazione.

IL PUBBLICO DI “PRIMA” ERA REALE?

Ciò che l’epidemia da coronavirus ha mostrato in modo lampante è la fine, o quantomeno la destrutturazione, di un concetto basilare per l’articolazione della vita sociale umana: quello del “pubblico”. Guardiamoci intorno. Fino a qualche giorno fa la RAI stava cercando con urgenza coppie conviventi per fare da pubblico figurante al Festival di Sanremo, da mesi facciamo dirette Zoom o Instagram per cercare di supplire all’assenza di pubblico “dal vivo” nei musei o teatri, le partite di calcio si giocano dentro stadi circondati da animazioni che mimano i comportamenti dei tifosi oggi assenti, decine di programmi televisivi e talent show pagano comparse di vario tipo per saturare gli insopportabili vuoti degli applausi dei primi mesi della epidemia.
Eppure, come è capitato in molti atri ambiti, il Covid sembra essere stato solo un acceleratore di qualcosa che era già in corso da anni – quanto erano già reali i pubblici televisivi? Chi ha mai creduto alla realtà dei giudici e giudicanti di Forum su Rete 4? E quanto erano reali i pubblici dei ragazzi precari dell’arte cooptati dai musei? E gli stadi dopo le tessere dei tifosi?
Il pubblico è importante perché ha a che fare con il riconoscimento, ovvero con l’essere conosciuti da fuori – lo sguardo dell’altro che ti fa esistere come individuo, ti posiziona, giudica, applaude, contesta. Spesso è un pubblico da rompere o da reinventare e non certo da accettare acriticamente, separato da una quarta parete da bucare, ma che tipo di pubblico è un pubblico controllato? Mai anonimo come quello delle dirette sui social, o addirittura finto e “comparsato” come quello degli esempi precedenti che sembra maggiormente legato all’idea di “animale-pubblico da compagnia” ben espressa dall’acquisto clandestino di follower su questo o quest’altro social network.

IL PUBBLICO E L’INCONTRO

Alcune discussioni, aggettivazioni del e sul pubblico, sembrano essere più urgenti che mai – il pubblico come astrazione, il pubblico del digitale, il pubblico non umano, il pubblico della vita umana che verrà, il pubblico delle alterità culturali, i pubblici indigeni, i pubblici di altre lingue, i pubblici “di strada”, i pubblici degli adolescenti, i pubblici bambini, i pubblici degli oggetti, i pubblici minerali.

Ci manca lo sguardo dell’altro, lo sostituiamo con dei suoi surrogati, ma forse sono soltanto surrogati di surrogati.

Diciamo, un po’ maldestramente, che oggi non si può fare più molto a causa del Covid e della sua gestione politica ma in realtà, a osservare con più attenzione la situazione, ciò che ci è impedito non è tanto l’essere attori ma l’essere spettatori. Possiamo fare tanto, ma non sappiamo per chi facciamo questo tanto e quanto sarà dato a noi nell’osservare questo fare. Molte interpretazioni filosofiche della digitalizzazione totale della vita in cui viviamo tendono a considerarci produttori quotidiani di archivi ma, come ha notato giustamente Giorgio Agamben nel suo Quando la casa brucia? (Moretti e Vitali, 2021), ciò che l’archivio non comunica è la voce e la relazione che le parole avevano nel suo scambio vitale, genuino, puro, non mediato da un filtro. Il filosofo lo chiama dialetto, ma è un modo molto romantico di dire incontro.
Ci manca lo sguardo dell’altro, lo sostituiamo con dei suoi surrogati, ma forse sono soltanto surrogati di surrogati – la prostituzione del pubblico (pensiamo all’applicazione only fans) – perché, siamo onesti, da quando non siamo realmente visti dall’esterno? Le quaranta persone che venivano a sentire le conferenze di filosofia erano davvero un pubblico o non appartenevano a una bolla molto specifica che garantiva l’effetto dei soliloqui? E la ricezione della ricerca accademica, appesa a riviste specialistiche che leggono in poche persone, può davvero considerarsi “pubblica”?

A CHI PARLIAMO DAVVERO?

Sono domande che, oggi più che mai nella gestione di un post-Covid, sono attuali e decisive riguardo questa presunta organizzazione del dopo. A chi parliamo davvero? Stiamo tutti costruendo parole prive di suono che viaggiano nell’etere come se fossimo già morti? Una volta, tanti anni fa, mi capitò di tenere una conferenza davanti a due persone in un piccolo paese nella provincia di Bergamo – una, sono sincero, era una mia amica. Non si registrava ancora niente, e chissà cosa oltre la vanità o la tenerezza mi spingevano a situazioni che purtroppo sono in realtà all’ordine del giorno. Urge, penso per esempio allo sterminato campo delle arti contemporanee, una riflessione su cosa significhi gestire un pubblico nell’epoca della scomparsa definitiva del significato più genuino di questa parola, ovvero il pubblico come incontro dell’estraneo, dell’assolutamente altro, dell’incontrollabile che poteva fischiare Carmelo Bene o schifarsi per Antonin Artaud. Urge, mi viene in mente sempre in tal senso anche il tema dei musei considerati solo delle banche dati e infatti chiusi con più facilità che dei centri commerciali e che sono qualcosa che come l’opera aperta di Umberto Eco si attivano solo in un sempre più raro e difficile momento di genuina fruizione.

È con questo incontro improvviso, ingestibile e radicale, magari addirittura extra-linguistico e non solo dialettale, che dobbiamo confrontarci.

Il problema è concettuale, logico e non percettivo. Non è che quando “tornerà la normalità” e riavremo molte persone ai concerti o negli stadi, nelle conferenze o alle sfilate, allora sarà tornato il pubblico. Ci sarà la confusione, il vuoto infernale diventerà un pieno infernale – ma quale sarà lo sguardo davvero che ci interroga? Chi o cosa prenderà la nostra voce trasformandola in azione? Vogliamo davvero essere visti senza condizioni di controllo che non comunichino la sensazione da “comfort-zone” in cui ci troviamo? In un’altra conferenza, molto più recente, parlavo di fronte a centinaia di persone in una piazza gremita. Tra queste centinaia di persone, perfetta definizione di pubblico perché indistinte e tutte diverse, un disturbatore che come nelle carte dei tarocchi marsigliesi possiamo chiamare “il matto” continuava a urlare, insultarmi, addirittura bestemmiare. Allontanato dalla sicurezza del festival dopo qualche minuto, ripristinata dunque la situazione di “normalità di pubblico”, generò nei miei pensieri uno strano sospetto – e se fosse stato proprio lui, “il matto”, l’unico vero incontro pubblico della mia vita da conferenziere? È con questo incontro improvviso, ingestibile e radicale, magari addirittura extra-linguistico e non solo dialettale, che dobbiamo confrontarci per riscoprire l’essenza genuina e mostruosa del pubblico che ci attende al di là delle quinte della vita in cui siamo pronti a esibirci.
Ma la domanda è: quando tutto tornerà come doveva, è con questo incontro che vogliamo confrontarci o con un’altra e non meno artificiale visione del pubblico degli avatar digitali che popolano gli stadi di oggi?

– Leonardo Caffo

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Leonardo Caffo

Leonardo Caffo

Leonardo Caffo, filosofo e curatore. Attualmente è curatore a La Triennale di Milano (delega Public Program) oltre che professore di Estetica della Moda e dei Media e di Fenomenologia delle Arti Contemporanee alla NABA. Insegna inoltre Ontologia del Progetto al…

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