Il museo d’arte contemporanea? È pubblico

Nel corso del lockdown Artribune ha realizzato una serie di interviste che hanno raccontato i musei verso la Fase 2. Questo testo è il frutto delle riflessioni che quell’analisi ha generato.

Mentre l’Italia intera si riabitua pian piano all’idea della Fase 2, tra bar, ristoranti, possibilità nuovamente di viaggiare nel Paese e ‒ perché no? ‒ anche di andarsi a vedere una mostra, una piccola grande verità viene sussurrata timidamente e poi sempre più forte: il museo pubblico è pubblico. Non che fino a oggi le cose stessero in un altro modo, ma sicuramente per tutto lo scorso decennio i venti delle politiche culturali hanno spirato in una direzione un po’ diversa mettendo in campo un nuovo identikit, una idea di cultura auto-sostenibile, produttiva fino alle esagerazioni di slogan un po’ azzardati come “la cultura che fattura”. La logica che ne è conseguita è quella manageriale, che di per sé non è sbagliata, se accompagnata da una competenza nell’ambito di riferimento o dal confronto con gli addetti ai lavori, ma che può assumere connotati tragici e schizoidi laddove non si tenga presente l’assunto di base. Cioè che il Museo, se è pubblico, è pubblico. Pagato da tutti noi, dai cittadini, con una vocazione, una mission, per dirla nel “managerese”, nell’interesse della collettività e della comunità. Questa regola n.1 spariglia tutte le carte, detta i principi di base, regola il rapporto tra istituzione e visitatore, orienta le attività e in un certo qual modo anche i contenuti. Promette educazione, divulgazione, sperimentazione, formazione, futuro. Dice bene dunque Giovanna Melandri, presidente del Maxxi di Roma, che dal 18 giugno ospita un festival virtuale autoriflessivo sul tema dei musei, quando in una intervista rilasciata durante il lockdown a questo giornale rimette al centro del ruolo del Museo, ad esempio, l’educazione delle nuove generazioni con il progetto Maxxi Teen: “Ci siamo chiesti come essere utili alla città. Abbiamo spazi grandi e convertibili per accogliere gli studenti in tutta sicurezza. Nasce così il progetto Maxxi Teen che metterà a disposizione dei giovani il Museo e il nostro personale qualificato: i ragazzi potranno portare il pc e seguire le lezioni online, mentre al pomeriggio offriremo laboratori educativi di qualità, coinvolgendo i giovani nella nostra programmazione. Faranno back-office insieme a noi, lavoreranno sulle mostre, ci aiuteranno a costruire il futuro del museo entrando nel vivo nella filiera della produzione culturale. Penso che questo progetto aiuterà tantissimo non solo i ragazzi, ma anche le famiglie, e soprattutto le donne. È il nostro modo di essere al servizio della città”.

IL MUSEO POST COVID

È evidente che l’esperienza dell’emergenza Covid-19 e del conseguente lockdown hanno rimesso in discussione per intero i nostri stili di vita. Certo, torneremo a viaggiare, ma non come facevamo prima – almeno per il momento ‒, stiamo tornando a lavorare, ma i ritmi, la produttività, i luoghi sono diversi, torneremo a visitare i musei, ma seguendo le regole del distanziamento sociale. In una dimensione come questa i modelli delle città d’arte e del turismo di massa con i grupponi (gli assembramenti diremmo oggi) preceduti da un ombrellino colorato, mostrano tutta la propria debolezza. E anche, come spiega il Presidente uscente dell’AMACI Gianfranco Maraniello in questa intervista, la logica dei grandi numeri. Come fa un Museo dunque a dimostrare l’importanza del proprio ruolo nella società se non può vantare un posto nel podio dei musei più visitati? Riaffermando il peso della dimensione collettiva. Sono diverse le esperienze che in questi mesi hanno virato più o meno consapevolmente in questa direzione, facendo del museo un catalizzatore di valori, tra tutte l’esperienza di Radio GAMeC, in una delle città italiane più dolorosamente colpite dal Covid-19. In quell’abbraccio solidale ci si poteva star comodi un po’ tutti, a prescindere. Una bella immagine del Museo post Covid, ce l’ha offerta anche Laura Valente, Presidente del Madre di Napoli, quando ci ha detto: “Il Madre deve diventare uno spazio democratizzato e collaborare attivamente ‘con le diverse comunità per raccogliere, conservare, interpretare, esporre e migliorare la comprensione del mondo’. In un contesto in cui permangono alcuni modelli non più sostenibili, in tema di beni culturali, c’è bisogno di individuare nuove strategie integrate che coniughino un’offerta artistica di grande spessore con una serie di politiche di inclusione e riflessione e formazione di professionalità che saranno la classe dirigente del futuro. Penso a un Madre comunità: diffuso, attivo, condiviso, partecipato”. Lo ha detto ugualmente bene, sempre su queste colonne, Sergio Risaliti, alla guida del Museo Novecento Firenze: “Voglio insistere su di un fatto: i musei sono istituzioni fondamentali alla crescita culturale del Paese. Creano turismo è vero; intrattenimento è vero; ma la loro principale funzione sta nell’essere strumenti di conoscenza e di formazione, di sensibilizzazione estetica e di sviluppo creativo. Luoghi del sapere e della bellezza al centro del quale ci sono i bambini, poi gli studenti, i giovani artisti e gli studiosi, i cittadini. I musei pubblici, sia grandi che minori o civici, sono un bene pubblico, ed esercitano funzioni pubbliche”.
Ma si è parlato a lungo di questo tema anche nel lungo e articolato intervento di Lorenzo Balbi, direttore del MAMbo di Bologna al Forum dell’arte contemporanea 2020. E penso che anche l’esperimento proposto dal nuovo Macro di Luca Lo Pinto, quando decide di aprire la mostra inaugurale (a ingresso gratuito) del museo al 17 luglio, riproponendo di fatto l’esperienza della famosa estate romana – leggasi, i prossimi mesi ci costringeranno almeno parzialmente all’idea di una estate in città – vada un po’ in questa direzione.

MUSEI: RIMETTERE IN ORDINE LE COSE

È chiaro che qui non si sta invocando per i musei italiani una logica prettamente statalista: un rapporto sano con il privato è auspicabile sempre e va incoraggiato, anche con le misure giuste da parte della politica. E senz’altro i musei devono continuare a darsi da fare per limitare il peso sui contribuenti. Così come la collaborazione del pubblico con il ricchissimo tessuto delle fondazioni e dei musei privati con programmi, attività e iniziative per la comunità di riferimento che fanno del nostro Paese un vero e proprio caso studio. E così come, ancora, ci auguriamo che le gallerie, le attività private che guardano alla cultura come settore di riferimento, i progetti di imprenditori e cittadini, siano sempre più forti e numerosi. Si tratta solo ed esclusivamente di rimettere in ordine le cose e di chiarire chi fa cosa. Un museo pubblico non è una azienda. Anche se ha delle attività auto-sostenibili, anche se c’è un biglietto da pagare, anche se produce ricchezze, economie, lavoro, realizza e vende libri, oggetti, servizi, gadget. Perché il suo primo e obbligato profitto è il futuro. Quando sostiene gli artisti italiani e dà loro una opportunità di carriera, sta costruendo la reputazione del nostro Paese. Quando offre spazi e attività alle persone anziane, o che soffrono un disagio sociale o una disabilità, sta dando un contributo in termini di civiltà. Quando parla il linguaggio delle tematiche di attualità, sta aiutando a dare vita a un pensiero. Quando programma laboratori di didattica o attività per bambini o giovanissimi, sta partecipando alla vita degli adulti del domani. E così via. Queste sono cose che non danno frutti nell’immediato, non si quantificano. Li daranno tra 10, 20, 50 anni e le ricadute sono spesso imponderabili. Renderanno probabilmente il Paese più ricco se non economicamente almeno umanamente. È una scommessa, certo, e sarà una grande avventura, ma il rischio non è d’impresa.

Santa Nastro

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Santa Nastro

Santa Nastro è nata a Napoli nel 1981. Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna con una tesi su Francesco Arcangeli, è critico d'arte, giornalista e comunicatore. Attualmente è vicedirettore di Artribune. È Responsabile della Comunicazione di FMAV Fondazione…

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