Roma. Tra il Ministero e un silenzioso terreno di battaglia
La partita in corso tra la Capitale e lo Stato sembra assumere contorni sempre più fumosi. Complice l’affaire del Parco Archeologico, parte di un accordo dai risvolti ancora da comprendere.
C’è una città, Roma, e c’è uno Stato, l’Italia: non sembra stiano andando molto d’accordo. In mezzo c’è un patrimonio inestimabile che assume sempre più nettamente le sembianze di un Risiko nostrano, in cui alla strategia silenziosa (vedi vicenda delle Scuderie del Quirinale) si mischiano le dichiarazioni estemporanee degli amici intorno al tavolo (come il ritornello del Pantheon a pagamento ogni volta che escono le classifiche sui luoghi culturali più visitati).
Proprio a metà strada tra dichiarazione e strategia c’è l’affaire del Colosseo. Al suo centro: un articolo della Legge finanziaria 2017, e un decreto attuativo incredibilmente rapido (secondo Gazzanni, a fine 2016, eravamo in attesa di 621 decreti attuativi totali) che siglando “la nascita del Polo archeologico del Colosseo”, “completa la riforma del Mibact avviata nel 2014”. Da un lato un’azione molto importante per il futuro del patrimonio romano, dall’altro una dichiarazione che pone tale scelta come conseguenza naturale di quanto già previsto, fatta forse con lo scopo di aumentare la distanza tra l’una e l’altra.
UN ACCORDO E UN CONSORZIO
Perché tanta attenzione mediatica? Perché a questo nuovo “Parco Archeologico” sono stati attribuiti: “L’Anfiteatro Flavio, il Foro Romano, il Palatino, la Domus Aurea e la Meta Sudans nonché ogni altro monumento o immobile, ricompreso nell’area archeologica dell’Accordo, già di competenza della Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’area archeologica centrale”.
I più attenti avranno notato il maiuscolo. Di quale Accordo si tratta? Dell’accordo che il Comune di Roma, nella persona del Sindaco Ignazio Marino, e il Ministero dei Beni Culturali (nella persona dell’attuale Ministro), hanno siglato il 21 Aprile 2015. In tale accordo, che definisce l’area oggi al centro del dibattito pubblico, viene assegnata “la gestione unitaria, dinamica ed efficiente” al “Consorzio per i Fori di Roma a cui Stato e Comune demandano la definizione di un Piano Strategico di sviluppo culturale e di valorizzazione dell’area” (il grassetto è nel testo originale). Tale Consorzio, stando all’accordo, gode di “autonomia finanziaria, ed è dotato di risorse iniziali conferite dal Comune e dal Ministero e continuerà ad essere sostenuto fino al raggiungimento dell’autosufficienza dell’equilibrio finanziario da perseguire mediante la ricerca autonoma di finanziamenti, mentre gli introiti dei monumenti gestiti affluiranno direttamente ai rispettivi proprietari”.
Di tale consorzio, a giudicare da Internet, si è parlato tra il 21 e il 23 aprile 2015, prima di qualche giorno fa, ma nel frattempo tale Consorzio è passato dal destinare gli introiti derivanti dalla gestione dei monumenti ai “rispettivi proprietari” (versione 2015) al “contribuire per un 30% alla tutela di tutto il patrimonio culturale di Roma e per un 20% al sostegno dell’intero sistema museale nazionale” (versione 2017).
QUALI STRATEGIE?
Un bel cambiamento, dato che la principale partita in gioco è quella dei finanziamenti e della gestione dei monumenti a più alto tasso di redditività (non a caso Luca Bergamo – intervistato sulle pagine del prossimo Artribune Magazine – affronta la questione più sul versante economico “Bad Company” che sul versante storico).
Ma non è l’unico cambiamento. O almeno così pare, dato che nella relazione del Decreto Attuativo non compaiono nemmeno in un’occasione le parole “piano strategico” o “piano di sviluppo”, cui invece l’accordo su Roma dedicava un intero articolo (Articolo 6: Piano Strategico).
Cosa ci sarà da aspettarsi da quest’operazione? I contenuti sono fumosi, così come le dichiarazioni degli interessati. Dall’esterno, e senza essere perfettamente al corrente delle “trattative” che ci sono o non ci sono state tra Roma (Comune) e Roma (Italia), sembra che la prima abbia perso terreno, nel senso più letterale del termine.
Stefano Monti
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