30 anni dalla morte dello scrittore Charles Bukowski. L’arte di vivere “contro” 

Il suo alter ego Henry Chinaski è un po’come la rolling stone della canzone di Bob Dylan che combatte la sua battaglia contro l’alienazione della società moderna. Al fondo delle sue storie aleggia sempre l’eco di una domanda: “Perché”?

Ne avevamo già parlato nel centenario della nascita, ma ogni occasione è buona per rispolverare il mito di Charles Bukowski (Andernach, 1920 – Los Angeles, 1994), che non fu soltanto un genio alimentato da un’ordinaria follia ma anche un attento osservatore dell’umanità, raccontata attraverso momenti poetici di grande tenerezza. Se ne andava trenta anni fa uno degli scrittori più anticonformisti della letteratura del Novecento. 

Bukowski con uno dei suoi amati gatti. Picture Alliance, Lars Wynter, Keystone, Dpa, Photononstop
Bukowski con uno dei suoi amati gatti. Picture Alliance, Lars Wynter, Keystone, Dpa, Photononstop

Chi era Charles Bukowski 

C’è abbastanza perfidia, odio, violenza, assurdità nell’essere umano medio, per rifornire qualsiasi esercito in qualsiasi giorno. E i migliori assassini sono quelli che predicano la vita”. E chissà cosa avrebbe avuto da dire sui conflitti della nostra epoca, dove l’ipocrisia abbonda quanto i proiettili. Bukowski osservava volentieri la folla, che considerava il più grande spettacolo del mondo; da lì traeva ispirazione ma senza lasciarsi troppo coinvolgere, ben deciso a rimanere se stesso perché “quando si tende a  fare  le  cose  che fanno tutti gli altri si diventa tutti gli altri”, e comunque per sua stessa paradossale ammissione trovava più interessante il diavolo rispetto alla “brava gente”. Una provocazione con cui dichiara tutto il suo essere “contro”, sempre e comunque. Da esperto in vicende di “ordinaria follia”, nelle sue pagine racconta storie di disperazione, sesso, alcolismo e solitudine, storie di vite che sono anche un tentativo di sfuggire al conformismo, all’ipocrisia di chi appunto si rifugia dietro la morale e poi stigmatizza chi è diverso per opinioni, religione, colore della pelle, eccetera.  
Per meglio capire Bukowski, bisogna sapere che considerava John Fante il suo dio letterario e nel 1978, quando lo scrittore era ormai minato dal diabete, minacciò la Black Sparrow (con la quale all’epoca pubblicava) di non consegnare il nuovo romanzo se non si fosse proceduto alla ristampa delle opere di Fante. E fu ancora Bukowski, nel 1983, a portare al capezzale del collega morente, la copia di Sogni di Bunker Hill, capitolo finale della trilogia di Arturo Bandini, appena pubblicato. Fante ritrovò il successo e la fama, anche se in limine mortis, proprio grazie all’interessamento di Bukowski. Aneddoti che danno la misura della sua generosità umana, a dispetto della fama di “cattivo soggetto” che sembrava circondarlo. 

La saga di Henry Chinaski 

Se Arturo Bandini (l’alter ego di John Fante) aveva l’ambizione di diventare uno scrittore di fama, Chinaski è un nichilista alcolizzato che ama a tempo perso la musica classica e la letteratura, e colleziona relazioni instabili con una donna dopo l’altra. Questo alter ego di Bukowski è un antieroe che ha nel sesso perverso non una ragione di vita, ma uno dei tanti strumenti a disposizione per sovvertire la morale. Anche la sua pigrizia risponde alla stessa logica, giustificata anche, di quando in quando, dalla sensazione di essere solo al mondo. Chinaski è un paradosso, è uno spazio vuoto che però riesce a pungere (un po’ come il rivoluzionario concetto di centravanti che Guardiola ha inventato per il FC Barcelona). Diretto, tagliente, senza ipocrisie, ha una sua verità che nasce dal suo animo forse scombinato ma sincero: non esiste una sola normalità, ognuno è normale a modo suo, ed è inutile affannarsi per migliorare le cose. Bukowski osserva, soprattutto se stesso, e  si stupisce di com’è e di quello che riesce a fare, senza voler diventare come gli altri perché si stente perfettamente normale nel suo mondo che lui stesso definisce “pazzo”.
Con il Bandini prima maniera, Chinaski condivide una rabbiosa amarezza che però nel suo caso sfocia nel qualunquismo, nel disimpegno, nel rifiuto di una vita “ordinata” e nel preferirne una ai margini, senza una precisa direzione, un po’ come il rolling stone della canzone di Dylan che combatte la sua battaglia contro l’alienazione della società moderna. Al fondo delle sue storie aleggia sempre l’eco di una domanda: “Perché?”. Sembra mancare un senso, e forse manca davvero. 

La copertina della prima edizione americana di Donne. Black Sparrow Press, 1978
La copertina della prima edizione americana di Donne. Black Sparrow Press, 1978

Bukowski e le donne 

Ho anche un debole per le donnacce, quelle che si ubriacano e bestemmiano, che hanno le calze molli e il trucco sbavato”. Quelle che appaiono anche in tanti quadri di Toulouse-Lautrec, Grosz o Schiele.  
Le donne sono una presenza costante nella vita e nella narrativa di Bukowski; si sposò più volte, e fra un divorzio e l’altro ebbe varie relazioni, persino con una ex moglie; una vita sentimentale disordinata, specchio di un’anima inquieta alla perenne ricerca di una pace che, paradossalmente, trovava solo nel caos. Ma non per questo era insensibile all’amore, e nel 1962, alla scomparsa di Jane Cooney Baker – la sua prima moglie che sposò nel 1947 e con la quale condivideva l’abuso dell’alcol – compose Per Jane: con tutto l’amore che avevo, che non era abbastanza, nei cui versi esprime tutto il suo dolore più vero, in modo viscerale, senza sfumature romantiche: “e do del bugiardo a Dio, // dico che qualsiasi cosa che si muoveva così // o che sapeva il mio nome // non dovrebbe mai morire”. Una poesia che è anche la confessione della propria impotenza davanti al destino, ma soprattutto dell’aver sprecato un’occasione unica. 
Poi ci sono le donne che Bukowski racconta nei libri, e c’è un romanzo, Donne appunto (terzo del ciclo di cinque L’odissea di Chinaski), in cui l’autore dà forma alla sua passione per il gentil sesso, che in questo caso troppo gentile non è perché non se lo può permettere, travolto da situazioni fatte di perversa sessualità maschile, dove la volgarità e la violenza sono componenti non secondarie. Il romanzo non tace le responsabilità maschili, perché pagina dopo pagina Chinaski diventa sempre più consapevole di come il suo comportamento abbia contribuito ad allontanare tutte quelle che donne che, ognuna a modo proprio, avrebbero anche potuto amarlo. Quindi, pur a denti stretti, ammette fra le righe che la violenza e la volgarità sono l’estremo rifugio dei frustrati. Ma Bukowski è ben consapevole che “il mondo sarebbe un posto di merda senza le donne. La donna è poesia. La donna è amore. La donna è vita”; e a suo modo la celebra, perché è ovvio che né Chinaski nei suoi romanzi, né lui stesso nella sua esistenza, senza la presenza femminile si sentirebbero qualcuno. 

Charles Bukowski e Faye Dunaway nel 1987. Getty Images Archive
Charles Bukowski e Faye Dunaway nel 1987. Getty Images Archive

L’attualità di Charles Bukowski 

Chi è oggi, Chinaski/Bukowski? In una società sempre più votata all’immagine, all’omologazione patinata, all’inseguimento di modelli suggeriti dalla pubblicità, immedesimarsi in questo atipico personaggio può essere un modo non tanto di essere liberi (frase fatta che lo stesso scrittore avrebbe rifiutato), ma di considerare che nella vita ci sono tutta una serie di altre possibilità, e quindi c’è spazio per essere se stessi. Coerentemente, Bukowski non giudica le vite degli altri, la radice delle sue storie è sempre autobiografica, e le aggiunte della fantasia non ne cambiano la sostanza; scrive, sembra, per mettere nero su bianco le sue esperienze e provare a capire meglio questo grande circo che è la vita umana. E nonostante tutti i paradossi che costellano le sue pagine, anche per lui la vita è degna di essere vissuta, perché “come un fungo velenoso, eterna risorge sempre la speranza”.

Niccolò Lucarelli 

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Niccolò Lucarelli

Niccolò Lucarelli

Laureato in Studi Internazionali, è curatore, critico d’arte, di teatro e di jazz, e saggista di storia militare. Scrive su varie riviste di settore, cercando di fissare sulla pagina quella bellezza che, a ben guardare, ancora esiste nel mondo.

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