New American Realism: la produzione culturale americana e l’analisi del trauma

La produzione culturale americana sta affrontando un processo di revisione, di autocritica e di analisi dei traumi e della società di grande portata.

Nelle ore che seguono la giornata degli scontri a Capitol Hill, a Washington DC e la notte di dolore e  riflessioni che hanno generato, gli Stati Uniti si ritrovano a confrontarsi con l’ennesima ferita inferta alla grandezza del paese. Un processo, quello di revisione e di ripensamento, che la produzione culturale americana sta cercando di affrontare da circa venti anni, dando vita a una storia di riesame e introspezione, di autoanalisi dei traumi con connotati ammirevoli. E allora il cinema, la letteratura, l’arte e le serie tv si sono adoperate per costruire una nuova narrazione, dove il sogno americano viene per un attimo riconsiderato e con esso la sicurezza di essere sulla sommità dell’impero, mentre il Paese si mette a nudo per raccontare una nuova realtà.

UN VIAGGIO NEI 52 STATI

Una realtà che sposta il cannocchiale dalle grandi città, in primis New York, prima grande protagonista, alle periferie, dalla Statua della Libertà ai luoghi più dimenticati dei 52 Stati. All’immagine sfolgorante, all’avanguardia, dell’America che ha innamorato gli europei (e fatto impazzire noi italiani) vengono affiancate storie di contraddizioni e di povertà, di razzismo, e di fratture sociali, sfociate peraltro nel 2020 e ancor prima nel 2017, con le rivolte di Minneapolis per Black Lives Matter, punta dell’iceberg di un processo già avviato, e il movimento MeToo. Abbiamo quindi imparato a conoscere la città di Baltimora e le sue complessità grazie alla serie The Wire (2002-2008 di David Simons e Ed Burns), la concezione di giustizia e di legalità, e il diritto alle armi in Justified (2010-2015, di Graham Yost), ambientato in Kentucky o nel pluriacclamato film Three Billboards Outside Ebbing, Missouri (2017, di Martin McDonagh), o le vicende tra pregiudizio e incomprensione tra i seguaci di Osho e gli abitanti di Wasco County, in Oregon, nella docuserie Netflix Wild Wild Country (2018). È un’America diversa, quella che vediamo in queste produzioni, con i suoi tabù, gli squilibri sociali, il bisogno Vs il denaro, cui spesso vengono opposte risoluzioni fai da te, a volte invece mettendo avanti interessi più grandi a quelli delle comunità. Ha fatto scalpore nella serie Orange is the new black l’analisi delle conseguenze della privatizzazione del sistema carcerario, ad esempio, o negli ultimi anni le miniserie When they see us (2019, di Ava DuVernay, che ha diretto anche il magnifico documentario, molto attuale in questo contesto Tredicesimo Emendamento, nel 2016) e Seven Seconds (di Simon Fellows con Wesley Snipes, 2018), prodotti totalmente Black Lives Matter, che puntano l’indice sulle ingiustizie, le sopraffazioni, le prevaricazioni, a volte addirittura “di stato” ai danni delle persone nere, con conseguenze inimmaginabili. O ancora Trial 4 (2020, di Rémy Burkel), che mette in primo piano la storia vera di Sean Ellis, un ragazzo nero di 19 anni ingiustamente accusato di aver ucciso un poliziotto e che rimane in galera per 22 anni, tra insabbiamenti e storie di corruzione a Boston. E poi scopri, sempre grazie ad una docuserie tv, nata da un saggio di John Grisham, che la stessa sorte è toccata a quattro ragazzi bianchi (white trash) ad Ada, in Oklahoma.

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THE 40-YEAR-OLD VERSION

Ma la carrellata potrebbe continuare tranquillamente con la docuserie Tiger King (2020, di Eric Goode), ad esempio. Siamo sempre in Oklahoma e la storia dell’allevatore di tigri Joe Exotic si svolge a colpi di social media, reality show, uso delle armi, politica, crime stories, in un crescendo di personaggi, vicende, colpi di scena. O la vita per l’esercito in Father, Soldier, Son (2020, di Catrin Einhorn and Leslye Davis), il bellissimo documentario che segue per 10 anni il sergente Brian Eisch e la sua famiglia, una vera storia americana che ripercorre attraverso due generazioni, la vita del Paese, tra eroismo e contraddizioni, aspirazioni e vite spezzate, onore e ricerca della felicità, dolore e rabbia, senso del dovere e sogni infranti. E infine, volendo rimanere su produzioni del 2020, l’indimenticabile The 40-Year-Old version di Radha Blank, che mette sotto la lente il politically correct, la lotta contro il compromesso, le debolezze del sistema culturale e le difficoltà e il senso di emarginazione che affronta una donna giunta nel mezzo del cammin di nostra vita. E nell’arte, per citare solo un esempio, il magnifico e intramontabile The White Album di Arthur Jafa, Leone d’Oro alla Biennale Arte del 2019. Prodotti che spiegano molto bene il contesto, gli squilibri, le ragioni e gli identikit delle manifestazioni, delle opposizioni, dei tumulti che stanno attraversando il paese. Le facce dei proud boys sono meno sconosciute. Le sofferenze dell’America nera, il senso delle rivendicazioni femministe, le statue abbattute, l’adesione al claim Make America Great Again, diventano maggiormente leggibili, pur lasciando in alcuni casi l’amaro in bocca.

UN MITO INCROLLABILE

È una America dunque che non sfugge alle proprie responsabilità questa e che sta affrontando il processo più difficile, quello di autocritica e di indagine dei propri traumi, ma che scaricando l’idea del mito, sta costruendo un nuovo mito. Quello di un Paese in grado ancora una volta di raccontare se stesso più di ogni altro, di riflettere sulle fratture e sulla propria storia recente praticamente in tempo reale, di registrare le cose mentre accadono, con la libertà di dire la verità, anche quando scomoda, una libertà che è ancora il valore più grande della società americana. Libertà che si identifica con la produzione culturale che diventa strumento per crescere, per cambiare, per diventare migliori e anche di rivendicazione sociale. Un cammino, questo, che l’Italia ha solo parzialmente intrapreso, e con risultati molto meno efficaci. Sarà attraverso il senso di dignità, rispetto, democrazia, invocato dal Presidente eletto Joe Biden il 6 gennaio 2021, ma anche attraverso la cultura, che gli Stati Uniti supereranno, faccia a faccia con il trauma, la triste notte di Capitol Hill. 

-Santa Nastro

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Santa Nastro

Santa Nastro

Santa Nastro è nata a Napoli nel 1981. Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna con una tesi su Francesco Arcangeli, è critico d'arte, giornalista e comunicatore. Attualmente è vicedirettore di Artribune. È Responsabile della Comunicazione di FMAV Fondazione…

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