(Un)pinning the Butterfly. Le retoriche di Manifesta. L’intervento di Antonia Algieri

Si è svolto il 18 luglio presso la Naba – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, il seminario (Un)pinning the Butterfly che ha analizzato le retoriche di Manifesta. L’ultimo intervento è della giovane studiosa Antonia Algieri, che si concentra sul concetto di “locality”.

“Che cos’è l’Europa e chi è europeo? Esiste una “nuova Europa” o c’è ancora una “vecchia Europa”? L’influenza culturale europea nel mondo è diminuita o no?L’identità europea è singolare e unica o è plurale e multiculturale?”[1] Secondo Samuel Huntington la mancanza d’identità culturale all’interno del continente è dovuta alla presenza di immigrati, “lavoratori ospiti”, che turbano l’integrità culturale della comunità europea. In Europa, come nel resto del mondo, ci sono popolazioni e culture diverse che attraverso l’arte riescono a convivere e a dialogare abbattendo distanze ancora oggi presenti. Secondo Hou Hanru le Biennali hanno ambizioni culturali e geopolitiche con il duplice problema di rappresentare il contesto locale e le istanze globali, di intensificarne la negoziazione, politicamente trascendente rispetto alle relazioni di potere con l’Istituzione. Storicamente alcune hanno avuto origine in contesti culturali che avevano subito profonde trasformazioni politiche: dalla prima Documenta del ‘55 nella Germania post-bellica della ricostruzione, a Gwangju nel processo di democratizzazione della Corea del Sud, la Biennale di Johannesburg dopo la fine dell’apartheid fino a Manifesta che nasce come la Biennale europea dopo la caduta del muro di Berlino. Cosa è rimasto oggi di questo significato politico?

LA BIENNALE ITINERANTE

Manifesta, biennale itinerante e nomade[2], si costituisce nei primi anni ’90 in risposta al cambiamento politico, economico e culturale avviatosi alla fine della Guerra Fredda, come piattaforma “pan-europea” per l’arte contemporanea.[3]Nasce come progetto site-specificin cui la comunità culturale e artistica produce nuove esperienze creative con il contesto in cui si svolge, costruendo una rete che intreccia vari fili di produzione istituzionale e artistica all’interno del territorio europeo.
Non si localizza in un contesto specifico ma si inserisce nei circuiti e nelle reti economiche e sociali: è piuttosto un’impresa priva di fabbriche localizzate e permanenti, concepita per progetti specifici ad hoc e che funziona solo all’interno della durata di brevi cicli produttivi. È dunque una «struttura organizzativa flessibile» che fa leva su una piccola unità amministrativa, permanente e centralizzata che produce a mezzo di esternalizzazione (outsourcing)”[4]. La flessibilità di Manifesta è dovuta alla scelta di un tema o concetto pan-europeo che viene proposto da un team di curatori esterni, in collaborazione con le diverse istituzioni culturali e accademiche nella città ospitante. Un ruolo difficile spetta al curatore che svolge il compito di “far uscire il locale o, per dirla in un’altra maniera, di metter in contatto nel modo migliore possibile la scena artistica locale con il sistema internazionale[5]”. Ogni nuova edizione “mira a stabilire un dialogo tra una specifica situazione culturale/artistica e il più ampio contesto dell’arte contemporanea[6]”.

LOCALITY O NON LOCALITY?

Eventi come Manifesta cercano di essere significativi a livello nazionale e internazionale, mettendo in evidenza caratteristiche particolari e apparentemente incomparabili del luogo che le ospita, ciò che potremmo chiamare “locality”[7]. Il concetto “locality”, secondo il curatore Hou Hanru, era culturalmente legato alla tradizione locale ma aperto agli scambi internazionali e ad artisti provenienti da ogni parte dell’Europa. “La sfida che dobbiamo affrontare è come immaginare e realizzare una biennale culturalmente e artisticamente significativa in termini di incorporazione e intensificazione della negoziazione tra globale e locale, trascendendo politicamente il rapporto di potere stabilito tra diversi luoghi e andando al di là del regionalismo conformista.”[8]
In un mondo globalizzato, oggi, è impossibile parlare di “locality” (“Luogo”) senza metterla in relazione con “globality” (“Altro”): relazioni sociali e politiche, economie, visioni, valori, linguaggi collettivi e individuali sono influenzati e trasformati. Uno dei principali risultati della globalizzazione nell’arte contemporanea è la contaminazione tra gli artisti, attraverso le biennali, e il superamento delle barriere tra gli stati nazionali.[9]

MIGRAZIONI: UNA OCCASIONE D’ORO

Tramite le migrazioni si creano opportunità economiche e culturali che influenzano le località di tutto il mondo; “la partenza e l’arrivo di gruppi nei diversi luoghi condizionano le ideologie e le produzioni trasformando ogni città, regione e stato-nazione[10]”.
Culturalmente e artisticamente confrontarsi con altri ambienti presenta un’apertura a nuove creazioni contagiate dal contesto, modificando la relazione tra soggettività e società. Il “sé” si fonde con “l’Altro” e il produrre arte si allontana sempre più dall’individualismo avvicinandosi allo scambio e alla collaborazione. Hanru afferma: “Lavorando collettivamente, diversi talenti individuali si accumulano e si combinano per generare nuovi linguaggi, concetti e, in particolare, nuove categorie culturali che suggeriscono una rivoluzione dell’ordine sociale, sia a livello globale (globally) che a livello locale (locally)”.[11]L’arte contemporanea oggi, creata da e per diverse località ma influenzata dalla globalità, può essere uno strumento per abbattere le egemonie e le ideologie dei capitalisti globali.
L’obiettivo di Manifesta è quello di superare il limite istituzionale ed entrare nella città/comunità composta da culture differenti andando oltre l’idea di cultura e passato puramente europeo. Allargare gli orizzonti rispettando le diverse culture “lasciando la propria isola per fondersi nell’oceano transfrontaliero nella ristrutturazione globale[12]”. Dove l’“Altro” e il “Sè” coesistono nel “glocal” (globale+locale) contaminandosi tra loro.

Antonia Algieri

Qui gli interventi di Elvira Vannini, Lisa Barbieri,Maria Teresa Lattarulo

[1]Ivi, p. 61.

[1]Ivi, p. 61.

[1]Ivi, p. 58.

[1]Cfr. “Tebbit’s Ghost” di Okwui Enwezor in The Manifesta Decade: Debates on Contemporary Art Exhibitions And Biennials in Post-wall Europe,a cura di Elena Filipovic e Barbara Vanderlinder, 2005, p. 176.

[2]“L’idea di una biennale nomade si mostrava la più idonea all’assorbimento di piattaforme socio-economiche ogni volta differenti, facendo perno (anche dal punto di vista degli elementi retorici autolegittimanti) sulla «rete» come principio chiave di organizzazione della morfologia d’impresa che, a partire dalla caduta del muro di Berlino, andava imponendosi”.

Marco Scotini, Artecrazia, Opera Viva, 2016, p. 16.

[3]Okwui Enwezor, op.cit., p. 183.

[4]Marco Scotini, op.cit.,p. 14.

[5]Marco Scotini, ivi, p. 18.

[6]Okwui Enwezor, op.cit., p. 184.

[7]Hou Hanru, “Towards a new locality:Biennials and “Global Art” ” in The Manifesta Decade., p. 57

[8]Ivi, p. 58.

[9]Ivi, p. 60.

[10]Ivi, p. 61.

[11]Ivi, p. 61.

[12]Ivi, p. 58.

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