Mid-career alla riscossa. Giacinto Cerone
Scultore totale, il corpo a corpo con la materia è per lui decisivo, distruttivo, foriero di nascite inaspettate. Giacinto Cerone è un altro dei nomi trascurati da certa storiografia, e anche dal mercato, dove il suo lavoro non è adeguatamente preso in considerazione. Non sono mancati però i tributi post mortem, oltre al lavoro di qualità dell’archivio gestito con rigore dalla moglie.
LA SCULTURA COME CORPO A CORPO
Stellina, Euchessina, la dolce (1986), Fucilieri, Senza titolo, Maestà (1990): questi i titoli di alcuni lavori germinali che ben chiariscono la portata dell’opera plastica di Giacinto Cerone (Melfi, 1957 – Roma, 2004). Per l’artista lucano – terra di pietra e di tramonti plastici – la scultura è un navigar ossessivo tra i meandri di una materia da plasmare e scoprire, da intercettare e interrogare, transitando con disinvolta sospensione dalla ceramica al gesso, dalla plastica all’alluminio, dal legno al marmo.
Cerone è scultore primigenio, nel senso che il rapporto con la materia gli appartiene in maniera intrinseca, vitale, intima, anche edonistica, probabilmente. Così come gli appartiene la velocità, il gesto, poiché il rapporto che si consuma con la forma da plasmare, incurvare, sfondare e tagliare è un corpo a corpo, una lotta tra titani. Chi vince? Probabilmente nessuno, anzi entrambi, visto che in arte si vince sempre insieme.
COME MARTELLI SUI VETRI
“Dobbiamo essere martelli che spaccano i vetri per far entrare il vento nelle case”, ha sostenuto. E sfogliando le pagine del catalogo della retrospettiva ordinata nel 2011 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, a cura di Angelandreina Rorro, tutto ciò appare con chiarezza sin dai primissimi pezzi, sintetici, come certe forme plastiche della sua terra natale. Il rapporto, meditato, fors’anche complesso e tormentato con la natura permane, come in Pennuto del 1991, Rosa nera del 1993, Rosa mistica del 1995, Leoncino del medesimo anno. La materia si contorce, lo spazio dell’azione è il medesimo della sostanza dell’opera, della sua creazione attiva e dialettica. Alla fine sembra quasi che la strabordante potenza della materia ceda il passo a un ritorno verso la sintesi estrema, assoluta.
Estremamente intensa l’attività espositiva – negli anni precedenti alla sua scomparsa lo abbiamo visto in alcune gallerie italiane: tra le mostre più belle, quella da Valentina Bonomo a Roma nel 1993 – e in diversi contesti. Amato da un ristretto numero di collezionisti, che hanno anche sostenuto la retrospettiva alla GNAM, il suo lavoro da alcuni anni è oggetto di uno studio attento e rigoroso capeggiato proprio dalla moglie, Elena Cavallo, che con diverse collaborazioni ha, ad oggi, archiviato opere e documenti utili per una ricostruzione esaustiva del suo lavoro.
OLTRE LA SCULTURA: I DISEGNI
Scultore viscerale, interprete inconsueto della materia plastica, “è stato anche un instancabile disegnatore”, come ha sostenuto Benedetta Carpi De Resmini nel suo testo Giacinto Cerone. Il massimo dell’orizzontale, edito sul catalogo della mostra del Macro di Roma (2014) dedicata proprio alla produzione disegnata dell’artista lucano. Sulle stesse pagine, Giuseppe Appella ricorda che “Cerone disegna per riconoscere la forma, individuarne la sostanza, materializzarne la fisicità concentrandosi sull’istante liberatorio del colpo fulmineo di matita o di carboncino”.
Palme, brandelli di vegetazione impetuosa, figure antropomorfe, erbari che rivelano un sentimento confidenziale con il creato e le sue logiche ed energie irrazionali. Grandi o piccole che siano, le sue carte sono concepite con tecniche miste, con una fretta senza precedenti, una velocità consapevole di un’artista “oltre”, vero indagatore dei ritmi della vita e dell’arte, delle relazioni tra il tempo dell’esistenza e quello del segno esplicitato sul foglio. Nell’operatività di Cerone il peso e l’importanza del disegno, inteso non solo nella sua dimensione di studio, ma di vero e proprio punto di approdo di una riflessione diffusa, emerge anche in Tripoli, libretto d’artista edito nel 2001 da Corraini, che post-mortem ha anche pubblicato le carte del 1987-1991 di Tracce di Dublino.
LA MORTE E IL MERCATO
È del marzo 2004 Una sposa infelice a Valle Giulia, monumentale scultura in gesso alla Facoltà di Architettura di Roma, su invito di Alberto Zanmatti e Giuseppe Gallo. È la sua ultima opera; il 19 aprile viene ricoverato all’ospedale San Camillo, dove muore il 4 ottobre. Da allora diversi sono stati i momenti di riflessione sul suo lavoro, ma rimane un nome in ogni caso defilato, sia sul mercato che nei contesti espositivi museali.
“Non ho mai visto un’opera d’arte figurativa davanti la quale la gente applaude. Commuove la musica, commuove la poesia… un quadro commuove in modo silente. Non ho mai visto qualcuno applaudire davanti la Gioconda… Vorrei che la gente applaudisse davanti a un’opera, non di certo davanti alla mia”.
Lorenzo Madaro
www.archiviogiacintocerone.com
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