La logica del finanziamento a pioggia, dell’accontentare tutti, delle clientele politiche, del campanilismo culturale, ha costi immensi a fronte di risultati che non solo sono scadenti, ma sono esposti ai venti delle crisi: negli Anni Zero abbiamo aperto una dozzina di centri d’arte contemporanea in Italia e negli Anni Dieci li abbiamo quasi tutti chiusi. Se ci fossimo concentrati su due o tre modelli al massimo, oggi forse non avremmo avuto luoghi cruciali per la narrazione culturale del Paese come il Centro Pecci o il Castello di Rivoli letteralmente boccheggianti.
Se si esce (?) da un periodo di grande crisi economica e si entra (?) in una fase di grande cambiamento con una nuova generazione alle leve di comando del Paese, non può sfuggire l’occasione per cambiare radicalmente l’approccio alla risoluzione dei tanti problemi. L’idea è di puntare, in ogni ambito culturale (la tutela e l’arte contemporanea, lo spettacolo dal vivo e le biblioteche, la nuova architettura e il paesaggio, il turismo e la tecnologia, il design e l’artigianato), a uno o due progetti e cercare di portarli a dama in un’ottica di legislatura. Fare poche cose, farle bene e soprattutto farle fino in fondo, chiudendo i cicli e rendendo i progetti operativi.

Così il nuovo Ministero della Cultura che verrà fuori dalle elezioni del 2015 (o magari del 2014) potrebbe essere un Ministero a progetto. Un luogo dove captare le migliori buone pratiche internazionali (sia a livello progettuale che a livello normativo) e calarle non su tutto il nostro sistema, ma su alcuni (pochi) progetti per ogni settore. Su due musei d’arte contemporanea, su due progetti di arte pubblica, su due teatri classici, su due teatri di ricerca, su due biblioteche, su due grandi progetti di sistema come, ad esempio, una grande riforma del sistema delle Soprintendenze. Se oggi il Paese è in crisi, infatti, non è dovuto a chissà quale maledizione interplanetaria, ma spesso è a causa di noi stessi. E la cultura, oltre a essere vittima della situazione, è ed è stata anche carnefice attraverso questi mostruosi centri di potere chiamati Soprintendenze. Leggi assurde e personaggi assurdi hanno contribuito a trasformare l’Italia in un posto dove è suicida investire: disoccupazione, abbandono, degrado e abusivismo sono stati i risultati di questa “tutela” tutta particolare. Una situazione inaccettabile, un suicidio in piena regola.

Forse questa è la prima delle poche, pochissime riforme da fare e da fare bene. Il neosegretario del partito di maggioranza e del partito favorito dai sondaggi appare essere su questa linea. È l’ultima occasione, si tratta di non sciuparla.
Massimiliano Tonelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #17
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