La democrazia del marmo
Ci stiamo appassionando ai serial. E per ora la Palma d’Oro la vince senza dubbio “L’era della stupidità” di Christian Caliandro. Ma anche qui si vola alto. Saranno solo due articoli, ma si parla di icone. Fra consapevolezza classica e coscienza contemporanea. A firmarli, Gian Maria Tosatti.
Ci torno sopra dopo oltre un anno. Anche alla luce di quel che allora mi era parso di intuire e che poi ha trovato conferma nei fatti e in una lunga stagione di cambiamenti. Mi riferisco al 14 dicembre 2010, una data che ha molti significati diversi, ma che più di tutto credo abbia segnato un confine preciso nell’evoluzione della coscienza di questo Paese. Per capirlo bisogna cercare di leggere l’evento in una prospettiva molto più ampia che non quella dei quotidiani artefici di una cronaca particolareggiata sulla sfiducia al governo rimandata al mittente e sui disordini di piazza, senza però trarre da tutto ciò un quadro analitico chiaro.
Per mettere a fuoco il fatto che il 14 dicembre 2010 sia la data che segna la disfatta della Seconda Repubblica è necessaria un’analisi fenomenologica che parta dal concetto di rappresentazione. Bisogna dunque allargare la prospettiva dalla cronaca quotidiana a una storia che ha più di 25 secoli, la storia del teatro e, appunto, della rappresentazione. Bisogna ripartire da Atene e arrivare a Roma passando per tutte quelle strade provinciali in cui è ancora viva quella tradizione di un teatro come oratorio civile usato per raccontare il sentimento di una comunità.
Accade tutti gli anni nel borgo di Monticchiello, in Toscana, dove la popolazione mette in scena i fatti salienti dell’anno passato in qualcosa che troppo sommariamente si tende ad accomunare al folclore, e accade in molti altri borghi mediterranei, dove il teatro non è gioco (ho sempre avuto una idea molto precisa di quelli che elogiano la sciocca assonanza anglofona o francofona fra giocare e recitare). Ce ne dà conto Carlo Levi, nel suo Cristo si è fermato a Eboli, nell’episodio in cui gli abitanti del piccolo paese di Gagliano, impotenti a una rivoluzione cruenta che restituisse loro il diritto a essere curati da un medico vero, mettono in scena, appunto, una commedia, sprezzante, tagliente, chiara, di fronte alle sedi delle istituzioni territoriali, affinché fosse evidente a tutti la loro decisione a disobbedire alle disumane ritorsioni del regime fascista.
Così è l’Italia di oggi, proprio come quel popolo contadino di Gagliano, una comunità appartenente a un’altra Storia rispetto alla sua classe dirigente e lontana da essa più di quanto una distanza sia colmabile attraverso il dialogo. È in situazioni come queste che, dunque, iniziano a spirare venti di rivolta, venti di rivoluzione. E soffiano forte, specie quando essi vengono portati da uragani planetari, da tonanti rovesci e rovesciamenti che dal Medio Oriente al Nord Africa, fino alle strade di Wall Street, raccontano la fine di un’epoca costruita proprio su queste distanze, e che si definisce nella formula “Era del Capitalismo”.
L’Italia è periferia di questa galassia in fermento, come periferia è stata del mondo capitalista. Il suo caso va guardato senza rischiare di confonderlo con quello di altri Paesi e altre circostanze. Tuttavia, seppure a livello di sistema esistono notevoli differenze, il popolo di questo Paese è oggi fiaccato allo stesso modo degli altri dalla crisi del sistema economico occidentale. I suoi istituti antichi, come la famiglia o quelli più moderni, come la scuola, gli elementi che da sempre tengono in piedi una comunità, non sono mai stati messi a più dura prova, lacerati, impoveriti, neutralizzati.
È in climi come questi che, ripercorrendo la lunga storia delle rivoluzioni, si trovano le micce che innescarono le grandi sollevazioni di popolo. È in climi come questi che i popoli dormienti trovano le forze disperate per edificare le terribili barricate parigine di Sant’Antonio e del Tempio di cui ci racconta Victor Hugo nei Miserabili. Era il 1848 e qualche anno prima per quelle stesse strade il ruggito del popolo aveva dato vita alla grande Rivoluzione del 1789. Si era anche lì alla fine di qualcosa di più grande che non il malessere interno della Francia. Si era alla fine dell’era feudale, alla fine di quella che gli storici definiscono “Era Moderna”. Anche allora i venti di rivolta attraversarono i confini politici e scossero tutti i continenti. E così oggi. Seppure ogni governo s’ostina a mantenere chiuse le proprie visioni in un orizzonte conservativo divenuto quasi radicale, un’altra era, quella contemporanea, si sgretola sotto i nostri piedi che ne calpestano il limite e l’assenza di scialuppe fa crescere il coro della frustrazione.
La differenza fra il presente e le pagine storiche raccontate fin qui sta in un’unica grande conquista, quella della democrazia, che ha incredibilmente rafforzato la solidità degli istituti di diritto. Una Rivoluzione in Europa, al contrario di quanto sta avvenendo in Siria, Egitto, Tunisia, Libia, oggi sarebbe impossibile per un motivo semplicissimo, perché rovesciare uno Stato di diritto costruito dal popolo sarebbe, da parte del popolo stesso, una contraddizione in termini. Come ha ricordato qualche tempo fa il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, quella italiana è una Costituzione nata dalla Resistenza, lo Stato, dunque, è ancora il fondamento più puro dell’identità di un popolo che trascende i massimi sistemi economici e i minimi storici di una classe dirigente inadeguata.
Nell’Italia di oggi, nell’Italia in cui i cittadini sono ancora Stato, non si può dare dunque una Rivoluzione, una di quelle che sfogano il sentimento frustrato di quel popolo che tiene ancora e sempre l’orologio della Storia. Ma pure questo sentimento ha bisogno di un veicolo per manifestarsi, per farsi comune consapevolezza, per farsi intesa e condivisione, per farsi segnale chiaro e condiviso, per farsi febbre, epidemia. E così si ricorre al teatro. Quello che è accaduto a Roma il 14 settembre 2010, con le colonne di fiamme e fumo ad avvolgere Piazza del Popolo, è stato la messa in scena di una Rivoluzione, un grande spettacolo teatrale popolare in cui, proprio come nell’Atene di Eschilo e di Sofocle, i cittadini hanno dato una chiara forma alle loro emozioni, una forma che potesse servire per palesare un sentimento, per condividerlo con tutti, una forma che si è fatta immagine attraverso gli occhi meccanici dei reporter che sono ben più di semplici testimoni da quando l’arte è entrata “nell’era della sua riproducibilità tecnica”. Essi sono generatori di icone, di simboli, di epiche, proprio come in passato lo erano i pittori, come lo era stato, ad esempio, Eugène Delacroix, autore di uno dei più emblematici ritratti dello spirito rivoluzionario francese col suo La libertà che guida il popolo, in cui la composizione della figura è essenzialmente identica a quella che si riproporrà quasi in diretta con gli scontri in Piazza del Popolo rimbalzando fra giornali e internet: quella della Fontana del Nettuno di Valadier stagliata contro il cielo in fiamme.
Una serie di assonanze lancinanti, a partire dal titolo del quadro e dal nome della piazza romana, che condividono quel sostantivo estremamente attivo e motore stesso dell’evento, rendono assai evidente la comparazione fra due icone identiche in tutto, a partire dallo sfondo, di fumo e d’incendio, per finire appunto alla composizione del soggetto, con al centro una figura mitica ed eroica che brandisce col braccio destro alzato il simbolo della riscossa (da una parte il tricolore, dall’altra un tridente, che però è tanto simile ad un forcone) con alla destra e alla sinistra gli emissari di un esercito parimenti emblematico, un ragazzo che suona la carica con un colpo di pistola e un borghese che si prepara alla battaglia, simili, se non identici, ai due tritoni che affiancano il Nettuno avvolto dal fumo suonando l’allarme col corno e lanciandosi nello scontro impugnando una lama.
Dietro il trio c’è poi il resto dei rivoluzionari quarantottini da una parte e i moderni ragazzi coi caschi e i passamontagna dall’altra. Così il popolo Italiano che non poteva fare la Rivoluzione ha fatto uno spettacolo che raccontasse uno spirito rivoluzionario, la voglia di riprendersi le istituzioni che gli appartengono e cambiare la rotta di un cammino comune che oggi ha bisogno di avventurarsi per strade radicalmente nuove. È dunque da qui, da questa giornata, da queste fotografie di terribile bellezza che però non fanno paura, che è partita effettivamente una Rivoluzione sotterranea. Oggi è evidente come da quasi un anno il modo di parlare degli italiani sia cambiato, come la loro passione per la politica sia tornata a fiorire. E così la loro voglia di capire invece di seguire ha portato nelle amministrazioni territoriali a risultati elettorali impensabili prima di quella giornata fatidica e a un cambio della guardia al governo centrale avvenuto con modalità che hanno esaltato gli istituti di quel diritto e di quella Costituzione che sono la grande conquista dell’Italia repubblicana. L’immagine di un Nettuno che si staglia bianco, marmoreo, su uno sfondo nero di fumo e fuoco, è l’icona di un paese ancora solido nella sua identità culturale, di un popolo la cui corruzione endemica non è profonda quanto il rigore architettonico dei suoi valori o quanto il suo senso della bellezza, matrice delle più luminose ere della civiltà occidentale.
Dopo i fatti del 14 dicembre tutte le parole spese nelle sedi del pubblico dibattito hanno sviato l’attenzione da quell’immagine. Il sistema dell’informazione, nell’intera complessità del suo apparato, si è affrettato a parlar d’altro, degli infiltrati, dei servizi segreti, della tenuta del governo, della sconfitta di Fini, di Scilipoti e di tutte le altre futilità. Nessuno, di contro, si è fermato per un attimo a riflettere sulla bellezza di quella visione, sul senso di quell’icona che era già chiaro a tutti nel momento stesso in cui era apparsa nelle ribattute dei giornali e dei quotidiani online.
Dopo oltre un anno, un anno di cambiamenti, appunto, posso dirlo con un certo grado di sicurezza e recuperare quell’immagine come l’icona fondante della Terza Repubblica. Quell’icona è stata la rappresentazione dell’Italia contemporanea, il teatro della sua passione e l’immagine della sua voglia di cambiamento, condivisa sulle pagine dei social network di persona in persona, come un segnale muto, un’intesa, che giorno dopo giorno, da allora ha prodotto una marcia univoca al cambiamento, che ha mutato in stonatura l’odioso accordo ventennale fra la voce del leader e quella della gente, che il maquillage televisivo (di matrice piduista, varrà pur la pena ricordarlo) continuava a proporci da quando un Berlusconi più giovane e meno capigliato intonava dal piccolo schermo assieme a un gruppo di sostenitori l’inno del suo partito réclame costruito per fare incetta degli avanzi lasciati al tavolo deserto della Prima Repubblica.
Oggi in Italia c’è una forza che avanza un passo dopo l’altro e che non ha bandiere, la sua bandiera è quell’immagine di Piazza del Popolo, un’icona che non è terribile come in molti si sono affrettati a notare, vedendo di essa solo lo sfondo nero, perché da troppo tempo, la loro ignoranza gli ha insegnato a evitare lo splendore e la bellezza del marmo e della sua democrazia di cui sono stati artefici Michelangelo, Bernini e appunto Valadier: i veri edificatori dell’Italia che ci somiglia.
Gian Maria Tosatti
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