Tra fotografia e pittura. Intervista a Paolo Ventura

Paolo Ventura, fotografo milanese, classe 1968, è in mostra negli spazi di CAMERA, a Torino. In questa intervista racconta il suo approccio alla fotografia, linguaggio inscindibile da quello della pittura e dell’oggetto libro.

Sino all’8 dicembre 2020, CAMERA – Centro per la Fotografia di Torino ospita la mostra Paolo Ventura Carousel. Abbiamo intervistato il suo protagonista.

Parlaci del grande libro, una sorta di volume antologico, edito da Silvana Editoriale, uscito in concomitanza con l’inaugurazione della rassegna.
È più un libro che un catalogo. Non ho mai fatto cataloghi nelle mie mostre. Per farlo ho tirato fuori materiale che avevo messo via parecchi anni fa, del quale non mi ricordavo quasi. Con la casa editrice avevamo l’idea di fare questo libro ed è nata così la mostra, per accompagnarlo. Una mostra che contiene molti meno lavori rispetto a quelli presenti nel libro.

Quanto sei intervenuto sul libro?
L’ho costruito io. Ho scelto la sequenza, le immagini, la struttura. Il resto l’ha fatto la casa editrice.

Ti faccio delle domande non per forza collegate le une alle altre. Mi interessa fare un discorso. Sei stato un fotografo commerciale di moda, sei passato alla ricerca. Hai iniziato a costruire dei diorami. In questo senso ti sei inserito in una tradizione della fotografia che costruisce dei set. Una tradizione che va da James Casebere a Thomas Demand. Come ti collochi in tal senso?
Credo che la fotografia “post-analogica” sia tutta costruita. Del resto, ripensandoci, è sempre stata costruita, così Man Ray, Irving Penn.

Questo vale anche per la fotografia di moda.
Tutta la fotografia è costruita, fatta eccezione per la fotografia di reportage che deve essere, per dovere, sincera e spontanea. Il Futurismo fotografico è costruito, la fotografia dadaista e quella surrealista, da Dora Maar in giù, lo sono. Franz Roh costruiva.

Così il Bauhaus o lo Still Life.
Adesso la chiamano staged photography, ma, ribadisco, mi pare che non abbia troppo senso collocarla in una nicchia a parte.

Tutte le etichette a poco servono.
Infatti.

Nel tuo caso, invece, c’è una narrazione.
Ecco, la differenza può essere quella, nel senso che il mio lavoro è narrativo. C’è una storia, con un inizio e una fine, uno svolgimento. Spesso anche un testo. Forse è questa la differenza: non mi sento molto distante dall’operazione concettuale e formale che faceva Man Ray. Non voglio certo affermare di essere al suo livello.

Teatro Ruzzier (da G.R. Grazia Ricevuta) 2019 © Paolo Ventura

Teatro Ruzzier (da G.R. Grazia Ricevuta)
2019 © Paolo Ventura

PAOLO VENTURA E IL LINGUAGGIO PITTORICO

Fin dall’inizio del tuo cammino, nell’ambito della ricerca artistica, ho sempre colto un profondo legame con la pittura. Ad esempio in occasione di Winter Stories a Studio La Città, a Verona, mostra da me curata, mi ricordo di averti chiesto quanto ti avesse ispirato il lavoro di Antonio Donghi, che è un pittore, tutto sommato, defilato.
È stato recentemente riabilitato. Certo la pittura è una delle mie anime. Mescolo fotografia e pittura e quest’ultima, da qualche anno, c’è sempre nei miei lavori.

Dai vita a una sorta di koiné linguistica. Usi tutto ciò che ti serve in quel particolare momento?
Sì, a eccezione della tecnologia, che non so usare. La pittura offre alla fotografia la tridimensionalità che le manca.

PAOLO VENTURA E I LIBRI

Faccio un passo indietro. Hai fatto molti libri d’artista, alcuni con Danilo Montanari.
Mi diverte molto farli perché chiudono un progetto, lo mettono in una scatola. Basti pensare al libro La morte di un anarchico.

Perché questo titolo? Un richiamo a Dario Fo?
L’anarchia, i funerali degli anarchici sono stati talvolta oggetto della pittura, basti pensare a I funerali dell’anarchico Galli di Carlo Carrà.

Il libro è per te strumento espressivo?
Il libro “chiude” il progetto, gli dà un limite, rappresenta una sorta di fine. Mi piace molto la componente tipografica legata all’immagine. Credo che la fotografia spesso ne abbia bisogno.

Per la fotografia il libro è la massima espressione
A volte faccio i lavori pensandoli già in forma di libro. Soprattutto i progetti piccoli.

Uno dei primi progetti a cui hai lavorato è stato War Souvenir, immagini di atmosfere. C’è un’evocazione di momenti. Le ho sempre trovate delle fotografie letterarie.
Sono delle evocazioni di un mondo, non si riferiscono né a fatti reali, né a fatti storicamente successi. In particolare il mondo del Nord Italia degli anni 1943-45.
Ho tratto ispirazione dai racconti che mi venivano fatti dalle mie nonne. La nonna di Belluno, che abitava a Milano dagli Anni Venti, era nata nel 1901. La nonna di Varese, invece, era del 1896. Entrambe ricordavano perfettamente la Prima Guerra Mondiale.

Autoritratto in costume di A., 2018 © Paolo Ventura

Autoritratto in costume di A., 2018
© Paolo Ventura

MASCHERE E SCENOGRAFIE

Con l’opera Behind the Walls entri tu, fisicamente, nelle tue opere. Cosa accadde in quel momento?
Accadde che ritornai a vivere in Italia, ad Anghiari, in Toscana, dopo alcuni anni che vivevo negli Stati Uniti. Forse volevo essere realmente in questi mondi, non semplicemente usando degli alter ego.

Prima costruivi le scene?
Io continuo a costruire. Per il mio modo di lavorare è fondamentale. Già sul catalogo si vede l’evoluzione dei miei lavori. Sono entrato e non sono più uscito dai miei lavori.

Hai fatto un lavoro sulle maschere?
Sì, in realtà quello è l’unico lavoro-non lavoro. È un hobby che ho deciso di esporre e l’ho anche pubblicato sul catalogo. Ho iniziato a farle per divertimento insieme a mio figlio, poi il numero è cresciuto, sono diventate circa 50-60 e hanno assunto la loro forza.
Ho iniziato a dare loro dei caratteri. Ho capito che non erano casuali. Poi, una volta che erano sul calorifero, ho notato una cosa buffa, che asciugandosi si deformavano; assumevano come dei ghigni, delle espressioni strane.
Nel mio lavoro non mi rappresento mai per quello che sono, sono sempre una maschera.
È la visione d’insieme che mi ha fatto riflettere. Vedere tutte le maschere insieme è stato importante perché è una rappresentazione del tema del doppio, che caratterizza spesso il mio lavoro.

Il tema del doppio è legato alla tua storia?
Sì, infatti, ho un fratello gemello.

Hai realizzato un lavoro sul lockdown?
Il lavoro sul lockdown è uscito non solo su Internet, ma anche come libro d’artista, che ho realizzato insieme a Danilo Montanari Editore.
Il lavoro è presente nel catalogo, ma non è in mostra. Sono andato, un paio di giorni prima della chiusura totale, ad Anghiari e là sono rimasto fino a settembre.
Durante i primi tre mesi di lockdown, che ho passato in Toscana, avevo dei grandi fogli di carta 100 x 130 e i colori e ho iniziato a dipingere. È stata una necessità, non avrei mai immaginato di fare un lavoro solo pittorico. Ho dipinto e sto continuando a dipingere. Con quei lavori ho fatto una mostra a Minneapolis che è andata benissimo ed è terminata la scorsa settimana. E anche il nuovo progetto al quale sto lavorando è con la pittura.

Angela Madesani
(ha collaborato Francesca De Matteis)

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Angela Madesani

Angela Madesani

Storica dell’arte e curatrice indipendente, è autrice, fra le altre cose, del volume “Le icone fluttuanti. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia”, di “Storia della fotografia” per i tipi di Bruno Mondadori e di “Le intelligenze dell’arte”…

Scopri di più