Le vite degli altri. Nelle fotografie di Gail Albert Halaban

Che cosa accade oltre le proprie finestre e quelle degli altri? La risposta è nelle fotografie dell'artista americana, che ha scelto di ritrarre persone sconosciute nell'intimità della loro esistenza. Chiedendo il permesso.

Dopo New York, Parigi e Istanbul, per la quarta serie di Out of the Window la fotografa americana Gail Albert Halaban (Washington, 1970) ha scelto il Sudamerica, e in particolare Buenos Aires.
La storia di Out of the Window è strettamente legata al vissuto personale dell’artista: il progetto nasce a New York, quando la fotografa, appena trasferitasi con suo figlio piccolo, passa le notti a cullarlo alla finestra in una città nuova e sconosciuta. La vita degli altri, osservata da fuori, diventa allora quasi familiare e confortante nell’estraneità urbana. Gail inizia a lavorare ai primi scatti e la serie viene esposta nel 2009.
Le sue fotografie, che sembrano rubate da una camera indiscreta, frutto di una curiosità quasi voyeuristica, sono in realtà l’esito di un processo di conoscenza reale. Gli scatti infatti vengono non solo autorizzati, ma concordati e messi in scena uno a uno con la collaborazione di tutti i soggetti coinvolti: qui sta la peculiarità del progetto, che sa quasi di esperimento sociale.

Prima di realizzare le tue foto incontri le persone e le inviti a raccontarsi, immaginando la situazione, l’atmosfera e la fiction della scena da fotografare. Il risultato è una sorta di messa in scena della vita reale che ci pone domande sul limite tra verità e apparenza, realtà e finzione. I tuoi scatti hanno più a che fare con il senso della realtà o l’immaginazione delle persone?
Spero entrambi. Il mio sogno è che chi guarda possa vedere le foto con uno sguardo aperto e una mente obiettiva, e immaginare storie che vadano ben oltre la realtà del momento.

Gail Albert Halaban, Out of the Window. Buenos Aires

Gail Albert Halaban, Out of the Window. Buenos Aires

Una delle caratteristiche più particolari delle tue foto è quella di mostrare una dimensione privata della vita quotidiana senza “rubarla”. Lavorando in posti diversi nel mondo, hai notato differenze nella disponibilità a essere coinvolti in questo progetto?
Assolutamente. I newyorchesi non sembrano aspettarsi molta privacy. A Parigi, una volta che le persone mi hanno fatto entrare in casa loro, sono stati molto disponibili a condividere i momenti più intimi. A Istanbul le persone sono state altrettanto disponibili a farsi fotografare, ma esitavano di più all’idea che le foto fossero in mostra. A Buenos Aires il progetto sembrava inizialmente infattibile, per via dello stress post traumatico derivante dal periodo orribile dei desaparecidos, che ha portato in Argentina a una maggiore stretta sulla privacy e a evitare contatti con vicini e sconosciuti, ma probabilmente come nordamericana sono stata accolta meglio di quanto avrebbero fatto con i loro stessi vicini e il progetto è riuscito oltre ogni aspettativa.

In effetti, un aspetto molto interessante del tuo lavoro è la possibilità di mettere in contatto persone che vivono nello stesso quartiere ma che non si sono mai conosciute. In un certo senso, questo percorso è l’opposto delle comunità virtuali, che sembrano invece aumentare la solitudine nella vita reale. In base alla tua esperienza, credi che il digitale abbia cambiato il nostro modo di relazionarci?
Sì, assolutamente. Abbiamo dimenticato quanto siamo simili ai nostri vicini. Abbiamo in comune più di quanto pensiamo, al di là delle differenze di religione o etnia: mangiamo gli stessi cibi, beviamo tè con le nostre famiglie, leggiamo storie ai nostri figli. Spero che questo progetto aiuti le persone a entrare in contatto tra loro, vedendo come i rituali delle nostre vite quotidiane ci uniscano tutti.

Gail Albert Halaban, Out of the Window. Buenos Aires

Gail Albert Halaban, Out of the Window. Buenos Aires

Le foto sono condivise sul tuo profilo Instagram Out_my_window_global e recentemente hai iniziato a pubblicare storie ispirate a questi scatti. Chiedi anche alle persone di partecipare mandando le loro storie ispirate da quel che vedono nelle foto. Puoi dirci di più di quest’idea?
Sono molto curiosa di sentire che cosa immaginano le persone vedendo attraverso le finestre. La gente mi chiede sempre quali siano le storie…Io non credo che sia rilevante la realtà oggettiva, ma che la nostra immaginazione collettiva possa creare qualcosa di totalmente nuovo.

Sei da poco rientrata da Buenos Aires. Cos’altro ci aspettiamo per il futuro?
Entro il 2018 spero di aver ritratto una città per ogni continente. Per andare in una città ho bisogno che le persone mi invitino a essere parte della loro comunità. Sono come una ragazza a scuola, che aspetta l’invito per il ballo. Spero che presto mi chiamino da Tokyo!

Emilia Jacobacci

www.gailalberthalaban.com

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #33

Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua 
inserzione sul prossimo Artribune

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Emilia Jacobacci

Emilia Jacobacci

Emilia Jacobacci è una storica dell’arte, laureata alla Sapienza di Roma con una tesi sul progetto del MAXXI. Si è poi specializzata in Management dei beni culturali alla Scuola Normale di Pisa e a Milano in Comunicazione multimediale. Scrive di…

Scopri di più