Attivismo e critica sociale nella mostra di Isaac Julien a Londra

Migrazione, colonialismo culturale e identità individuale e collettiva sono alcuni dei temi affrontati dal regista e artista britannico, in mostra alla Tate Britain

Gli spazi riservati alla mostra What Freedom is to me, accanto alle collezioni permanenti della Tate Britain di Londra, si articolano in corridoi colorati che si diramano da un punto centrale, conducendo ciascuno a una sala buia. Qui si concretizza la mostra dedicata all’opera del regista e artista Isaac Julien (Londra, 1960), che ne ripercorre quarant’anni di carriera attraverso una serie di videoinstallazioni multischermo, da cui affiorano paesaggi e personaggi, immersi in luoghi reali o immaginati, tra passato e presente.
Nel documentario Looking for Langston (1989), l’artista di origine caraibica scruta il mondo interiore del romanziere Langston Hughes, figura di riferimento dell’Harlem Renaissance, girando il film a Londra, ma ambientandolo nel mondo jazz degli Anni Venti. In piena epidemia di AIDS, alla fine degli Anni Ottanta, Harlem rivendica la creatività identitaria degli artisti afroamericani, e la pellicola, che celebra l’amore queer rifiutando retoriche omofobiche, diventa un film di culto, dando voce al desiderio gay nero.

Isaac Julien. Photo © Thierry Bal

Isaac Julien. Photo © Thierry Bal

LA POETICA E LE OPERE DI ISAAC JULIEN

La giustizia sociale, del resto, è obiettivo costante dei lavori di Julien, che scrutano il dolore e le contraddizioni del mondo, pur attribuendo all’estetica una priorità formale, attraverso cui, però, stabilire una comunicazione con lo spettatore, per suggerirgli un nuovo modo di vedere.
In Ten Thousand Waves (2010), su nove schermi e con i versi del poeta Wang Ping (Small Boats, 2007) in sottofondo, l’artista affronta la storia cinese per invitare a riflettere sulle migrazioni. I confini geografici diventano elementi di controllo sul movimento degli individui, su un orizzonte temporale che intreccia narrazioni del passato e leggende calandole nel presente, mentre l’attrice cinese Maggie Cheung diventa un angelo che volteggia su paesaggi costieri e labirintiche architetture contemporanee. Il riferimento cronachistico, qui, è alla tragedia di Morecambe Bay (2004), in cui persero la vita 23 immigrati cinesi clandestini, raccoglitori di molluschi sulle spiagge inglesi. E le sequenze con l’acqua che sovrasta e ingoia lo spettatore sono elemento di partecipazione al dramma: un invito a riformulare le proprie priorità individuali nel presente. Alle prevaricazioni del capitalismo, non a caso, Julien dedicò il live reading (All the World’s Futures) performato durante i sette mesi della Biennale d’Arte di Venezia 2015, declamando i tre volumi del Capitale di Marx.

Isaac Julien, In the Life (Iolaus), Once Again... Statues Never Die, 2022

Isaac Julien, In the Life (Iolaus), Once Again… Statues Never Die, 2022

ISAAC JULIEN E LA CRITICA AL MUSEO

Il film Once Again… (Statues never Die) (2022), invece, riprende le conversazioni tra il filosofo Alain Locke e il collezionista americano di arte africana Albert C. Barnes. Stavolta l’oggetto dell’indagine è il museo: Julien ricorda le razzie operate dall’Impero britannico nelle colonie e si serve del punto di vista di Locke, che auspicava una più etica collocazione del patrimonio artistico africano, per denunciare il comportamento colonialista dei musei occidentali.
E ancora, Vagabondia (2000) è un film girato nel Sir John Sone’s Museum di Londra, e si focalizza sulle fantasticherie di un conservatore che nottetempo percorre tormentato le sue sale, circondato dall’immobilismo di sculture rinascimentali in marmo. Anche in questo caso, Julien si interroga sul ruolo che dovrebbe ricoprire un museo oggi, contestandone la tendenza a “fossilizzare” le collezioni che conserva, perché la cultura non sia bramosia di accumulare oggetti per rinchiuderli in una teca, né tentazione di presentare narrazioni distorte e pilotate. L’artista, esercitando il proprio diritto (e dovere) alla critica, vuole stimolare una riflessione: come può un museo contemporaneo proporsi quale interprete di storie senza tempo senza rischiare di pietrificarle o soverchiarle?

Lina Bo Bardi, installation view at Tate Britain, 2023. Photo Jack Hems © Isaac Julien. Courtesy the artist and Victoria Miro

Lina Bo Bardi, installation view at Tate Britain, 2023. Photo Jack Hems © Isaac Julien. Courtesy the artist and Victoria Miro

ISAAC JULIEN E LINA BO BARDI

Con la videoinstallazione a nove canali Lina Bo Bardi ‒ A Marvellous Entanglement (2019), girata in diverse località del Brasile (tra cui il Museo d’Arte di San Paolo, il Museo d’Arte Moderna di Bahia e il Teatro Gregario de Matos di Salvador), Julien rende omaggio all’architetta modernista italo-brasiliana Lina Bo Bardi. Sulla scena ci sono le attrici brasiliane Fernanda Montenegro e sua figlia Fernanda Torres, mentre la citazione che ispira il film è tra le più note di Bo Bardi, circa il fatto che il tempo lineare sia un’invenzione occidentale: “Il tempo non è lineare, ma un meraviglioso groviglio senza inizio né fine, dove, in qualsiasi momento, possiamo scegliere punti e inventare soluzioni”, nel rispetto dell’individualità di ciascuno e dell’eterogeneità delle culture.

Cristina Zappa

Londra // fino al 20 agosto 2023
What Freedom is to me
TATE BRITAIN
Millbank
https://www.tate.org.uk/

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Cristina Zappa

Cristina Zappa

Di formazione classica, giurista con una laurea magistrale in diritto civile (Università Cattolica, Milano) e una laurea biennale in Arti visive e studi curatoriali (Naba, Milano). Come critica d’arte ha recensito articoli per D’Ars magazine e per Alfabeta 2, ha…

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