Schietto, ironico, anarchico: ecco chi era l’artista Gianfranco Baruchello

Orso. Anarchico. Poco adattabile. L’esplosione del mercato negli anni Dieci. Ecco chi era Baruchello secondo Alessandra Mammì. L’ultimo saluto all’artista sarà in Campidoglio a Roma, nella Sala del Carroccio martedì 17 gennaio dalle 10,30 alle 13

Forse sarà stato il senso di colpa per non averlo intervistato prima, o forse il fatto che non sono mai stata brava in matematica. Anche se qui dimostrai di non saper neanche far di conto scrivendo che Gianfranco Baruchello era nato nel 1924 e aveva dunque 78 anni. Era un’intervista per “L’Espresso” del 2014 e ahimè il pacchiano errore scivolò tra le maglie dell’editing e fu pubblicato, ma la verità è che parlando con lui era difficile chiuderlo in un’età: poteva avere 30 o centinaia di anni. Come uomo trasmetteva la calma di chi sa controllare il suo eccesso di energia. Come artista appariva oltre il tempo, preservato da quell’isolamento in cui aveva continuato a tenere nella mente, con ostinazione, il filo di un illuminismo che persino la migliore avanguardia non era riuscita a conservare.

Gianfranco Baruchello. Exhibition view at MART, Rovereto 2018. Photo Mart, Bianca Lampariello

Gianfranco Baruchello. Exhibition view at MART, Rovereto 2018. Photo Mart, Bianca Lampariello

CHI ERA GIANFRANCO BARUCHELLO

Eppure, non era affatto un solitario sebbene prima di conoscerlo quando lo vedevo palesarsi in qualche inaugurazione, ne avevo soggezione. Così alto, così forte, con il volto scolpito, gli occhi severi…  Ma quel giorno di dicembre, seduta fra lui e Carla Subrizi (molto più di una compagna) avvolta dai suoi calembour visivi, i dettagli dei dipinti che costruivano mondi, le enciclopedie dove “il sapere non si accumula ma rende problematica ogni precedente acquisizione“(come disse a proposito di quella “Psicoenciclopedia“, ultima straordinaria sua fatica), stimolata dalle sue risposte pronte che scatenavano subito altre domande, ho visto lampeggiare l’intelligenza e l’ironia del migliore dadaismo custodita come il fuoco in un sacello.

Era l’inverno e io avevo chiesto quell’incontro per capire come mai all’improvviso il lavoro di Baruchello era esploso ovunque: Carolyn Christov-Bakargiev lo aveva segnalato come uno dei punti di riferimento della sua Documenta nel 2012. L’anno dopo era tra i pochi italiani a entrare nel “Palazzo Enciclopedico” della Biennale di Massimiliano Gioni e contemporaneamente rappresentava l’Italia come uno dei maestri indiscussi nel Padiglione nazionale firmato da Bartolomeo Pietromarchi. Tra l’una e l’altra apparizione omaggi d’ogni genere. Lo intervistavano sia Maurizio Cattelan che Hans Ulrich Obrist. Il più potente gallerista italiano Massimo De Carlo gli aveva dedicato un “one man show” nella fiera di New York appena chiusa. La Viennale (film festival della capitale austriaca) prima e il Grand Palais dopo, proiettavano come testo di studi il suo film “Verifica Incerta” mentre un editore svizzero preparava il dvd con tanto di extra.

Gianfranco Baruchello, Greenhouse. Exhibition view at Galleria Massimo De Carlo, Milano 2017

Gianfranco Baruchello, Greenhouse. Exhibition view at Galleria Massimo De Carlo, Milano 2017

BARUCHELLO: L’IMPROVVISA ESPLOSIONE DEL SUO LAVORO

Che cosa fosse esattamente successo e perché questo intelligente e ironico signore avesse dovuto aspettare cinquant’anni per essere venerato, era il tema del nostro incontro. Dunque, alla domanda “a che deve tanto tardivo successo?” lui rispose divertito “La domanda è simpatica”, mi disse. “Ma che le devo dire? Meglio tardi che mai? Del resto, Duchamp ci ha messo cent’anni per essere metabolizzato. Non mi equiparo a Duchamp, sia chiaro, lo prendo ad esempio di chi sceglie una ricerca da isolato. Di chi non è nella squadra e insegue un linguaggio che con quello delle altre squadre non c’entra niente. Ed è faticoso, mi creda, sostenere un linguaggio per cinquant’anni di seguito sentendosi soli. E la solitudine non è propriamente la mia passione. Ma se vuoi camminare in un bosco, non puoi far finta di essere in pianura. Quindi devi continuare a seminare sassolini per non perderti. Ogni tanto mi palesavo fuori dal bosco e tutti dicevano: “Ma che c’entra qui Baruchello?” oppure “Toh c’è anche Baruchello!” Erano tempi in cui c’erano le scuderie e i critici di riferimento. L’Arte Povera di Germano; gli artisti di Achille. Celant del mio lavoro apprezzò soprattutto “Verifica Incerta” e la volle per la sua importante mostra al Centre Pompidou sull’ “Identità italiana” nel 1981.Il film per lui era un oggetto di culto, ma io non ero fra i “suoi artisti”.

Maurizio Frangipanne, Carla Subrizi, H.H.Lim, Dora Stiefelmeier, Mario Pieroni e Gianfranco Baruchello

Maurizio Frangipanne, Carla Subrizi, H.H.Lim, Dora Stiefelmeier, Mario Pieroni e Gianfranco Baruchello

BARUCHELLO, CELANT, LA TRANSAVANGUARDIA

Non era fra gli artisti di Celant e neanche fra quelli di Achille Bonito Oliva che pure aveva amato il suo lavoro come un esempio italiano di Fluxus (“Ma siamo sinceri, non lo ha mai difeso fino in fondo”). Di certo poi pur lavorando con la pittura, Baruchello non poteva rientrare nella Transavanguardia che vide solo come l’esplosione di brutti quadri continuando a domandarsi. “Ma che significa Transavanguardia? Qual è il sigillo di questo movimento? A parte Achille naturalmente”.

Non furono più semplici i rapporti con galleristi, collezionisti e mercanti. Tra un ricordo e l’altro raccontò quel giorno di come nei primi anni Sessanta abbandonò persino Ileana Sonnabend quando lei rappresentava una potenza nella terra dell’arte. “Era il 1962 andai un New York con un lavoro che facevo allora: oggetti fatti con ritagli di giornali incollati su tavola. Li chiamai “Cimiteri di opinioni “. Uno era nato per la morte di Pinelli. Un altro in omaggio a Feltrinelli. Ileana ne fu entusiasta. I collezionisti pure. Vendetti tutto e lei mi disse: “Baruchello d’ora in poi dovrà fare solo questi lavori e in due anni le assicuro che diventerà il più grande incollatore di giornali di tutti i tempi!”. Ma io risposi: “Mi dispiace ma ho finito. Ora voglio fare un’altra cosa”. Così non sono diventato il più grande incollatore e neanche ricco.

Ho sempre reagito così. Quando facevo opere con il plexiglass una famosa collezionista americana incontrata ad un party mi disse: “Baruchello adoooro il suo plexiglass se potessi lo porterei al collo come un gioiello!”. Da quel momento non ne ho fatti più. “Se quella se lo vuole mettere al collo” ho pensato “ci deve essere qualcosa che non torna in quel lavoro”.

Orso. Anarchico. Poco adattabile. Non propriamente un tipo simpatico, si descriveva alla cronista, ma più parlava più invece si rivelava un uomo gentile, fin troppo intelligente con un grande desiderio di dialogo e semmai la difficoltà di trovare sinceri interlocutori. Ne ricordò pochi, sostenitori e amici nel corso dei lunghi anni di solitudine, ma perlopiù vivevano Francia. Filosofi come Lyotard e Derrida, alcuni giovani artisti e soprattutto Marcel Duchamp, stella polare della sua formazione e di gran parte della sua ricerca.

Ho fatto di tutto per incontrarlo. Un collega mi disse che Duchamp era a Milano. E allora, prendo un aereo e lo raggiungo in un ristorante. Era il 1963 e Duchamp non era così famoso all’epoca. Ma avendo letto la raccolta di suoi scritti “Marchand du sel” che mi aveva passato Sebastian Matta, ne ero rimasto profondamente colpito. Ero timido, mi feci forza: “Scusi il disturbo, sono un pittore italiano e vorrei conoscerla”. Di fronte a me c’era un uomo generoso, disponibile, attento soprattutto a chi faceva il suo stesso mestiere e giocava a scacchi con lui. Ebbi subito l’impressione di aver trovato un parente stretto. Ho una sua foto mentre monta i miei quadri in una galleria e una sequenza di un film di Warhol in cui è seduto di fronte a un mio lavoro. Fu un’amicizia fatta di tanti pensieri e tanti discorsi. Ma gli devo soprattutto di avermi trasmesso la determinazione nel sostenere un proprio linguaggio personale anche quando è difficile imporlo”.

Gianfranco Baruchello e H.H.Lim

Gianfranco Baruchello e H.H.Lim

BARUCHELLO: IL SUCCESSO INTERNAZIONALE

Poi succede qualcosa e quel linguaggio esplode e va ben oltre i confini nazionali. Che cosa l’abbia liberato Baruchello non sapeva dirlo. Non c’era stato un solo evento o un momento preciso, “piuttosto tante cose che si accumulano e poi precipitano fuori dal contenitore. Negli ultimi tempi ho fatto un censimento e mi sono accorto di aver pubblicato ben diciotto libri. Sono tappe. Anche se non hanno avuto un circuito commerciale hanno aperto il terreno alle mostre importanti: la Biennale a Venezia, Documenta a Kassel e prima ancora la retrospettiva alla Galleria nazionale di Roma perché è lì che Carlos Basualdo ha visto il mio lavoro e mi ha invitato nel suo museo a Philadelphia. É così che partono telefonate, contatti proposte…la rete. E una quantità di impegni che all’improvviso ti travolge”.

Era il soffio dello spirito dei tempi. L’artista sperimentatore, come lo definivano le schede biografiche, aveva vinto. Baruchello che nei primi Sessanta colleziona frammenti e li immortala con matite colorate su tele bianche; Baruchello che costruisce totem con pezzi di legno, ferro, materiali di recupero e viene arruolato da Pierre Restany nel Nouveau Realisme (la risposta europea alla Pop Art); Baruchello che negli anni Settanta compone teatrini con collage di giornali e origami di saggi battezzandoli con titoli tipo “I manifestanti sono invitati a moderare la terminologia antisindacale”; Baruchello che inventa azioni e scenografie teatrali, che scrive volumi e li scompagina in libri d’artista, che è amico dei filosofi (e molto meno dei critici), che occupa terreni destinati alla speculazione edilizia per fondare una comunità “Agricola Cornelia” con intenti contadini ed etico/estetici; Baruchello, infine, che un giorno, insieme a quel cineasta di genio che fu Alberto Grifi, comincia ad incollare alla moviola pezzi di pellicole di film per ricomporne un film diventato assoluto culto: “Verifica incerta”. Baruchello disobbediente al sistema dell’arte e troppo instabile per il mercato. Stimato ed evitato per anni ora si scopre essere stato il grande pioniere che aveva anticipato i film di found footage, le nuove correnti di arte collettiva e comportamento mentre il suo “archivio delle idee” e le sue enciclopedie erano diventati un paradigma per i giovani curatori e artisti che amano tuffare la testa nelle carte.

Mi sento amato da quei giovani curatori alla ricerca di personalità coerenti, persino controcorrente. Quelli che per capire cosa è stato il Novecento dei loro padri vogliono scoprire chi è rimasto fuori dal sussidiario. E guarda caso proprio Maurizio Cattelan e Massimiliano Gioni vanno a segnalare il mio nome tra i 100 artisti di “Cream” (celebre volume di Phaidon del 1998, sulle più influenti personalità dell’arte contemporanea scelte dai curatori emergenti, ndr). Fu uno degli inizi. Cattelan è un essere unico al mondo. Credo che nel generare un’idea usi un meccanismo simile al mio. Istintivo, visivo, improvviso, non ragionato. Siamo persone di invenzione, cerchiamo il bordo del sapere e dell’essere». Era ormai trascorso l’intero pomeriggio ed era rimasto tempo solo per un’ultima richiesta: un consiglio, un viatico per un giovane artista. “Consiglierei il coraggio” disse “La forza di non vendersi alle correnti vincenti sperando di essere accettati dai loro generali. La convinzione di essere nel giusto e non avere mai paura del ridicolo. Il resto fa parte del Risico della vita, in cui il talento spesso c’entra poco”. 

BARUCHELLO: IL RICORDO DI ALESSANDRA MAMMÌ

Quel giorno ci lasciammo con quest’ultima risposta, ma in realtà non ci lasciammo più. Ci vedevamo spesso, prima del Covid almeno, con Carla Subrizi (bravissima storica dell’arte e sua infaticabile compagna di vita e di lavoro) e Marco Giusti mio marito (guarda caso autore e creatore di “Blob” consanguineo televisivo della sua filmica “Verifica incerta“).Organizzai anche un incontro/ proiezione dedicato ai suoi film cortometraggi alla Sala Trevi di Roma con la Cineteca Nazionale, e rimasi travolta dalla quantità di persone ( giovani soprattutto) che arrivarono fino a non a riuscire più ad entrare. Non mi stupì, però, che fosse amato come un guru. Anch’io, del resto, ogni volta accanto a lui imparavo qualcosa, capivo qualcosa, cancellavo un pregiudizio o conquistavo un nuovo punto di vista. Per questo non voglio dire che Baruchello ci mancherà. È ovvio che ci mancherà. Preferisco dire che ci è mancato in passato, quando ha lavorato in solitudine ai margini del sistema arte e del sistema cinema, un passo avanti a entrambi o forse, come avrebbe preferito lui, un passo di lato per osservarli meglio decodificarli, smontarne l’essenza e ricostruirne il linguaggio arricchendoli di pensiero. Quel pensiero limpido, che sa afferrare per la coda la semplicità come punto d’arrivo, e che si esprime nel suo bellissimo e sorprendente italiano, così chiaro, così insolito. Il linguaggio che mi sorprese in questo colloquio nato in occasione di un articolo di nove anni fa e che credo valga la pena di rileggere oggi. Anche per aiutarci a capire quanto abbiamo perso e perché da domani mattina sarà bene metterci al lavoro per studiare e riappropriarci di un uomo di genio, come è stato ed è Gianfranco Baruchello.

Alessandra Mammì

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati