A Merano una mostra per dire no alle discriminazioni

13 artisti riuniti negli spazi di Kunst Meran Merano Arte per presentare opere che rispondono a una delle urgenze più forti del presente: combattere razzismo, violenza di genere e pregiudizi. Ne abbiamo parlato con la curatrice Judith Waldmann

Una mostra collettiva che sottolinea il potenziale dell’arte nel risvegliare la consapevolezza sulle ingiustizie sociali e politiche: è Turning Pain Into Power, che Kunst Meran Merano Arte ospita fino al 29 gennaio 2023, mettendo in scena una selezione di opere di tredici artiste e artisti che si oppongono a forme diverse di ingiustizie attraverso strategie forti, consapevoli e creative, ad esempio contro il razzismo e la violenza di genere. La mostra è una tappa importante di un lavoro a lungo termine della kunsthalle meranese sui rapporti tra arte, attivismo e formazione, volto a indagare, mettere in discussione e contrastare le forme di pregiudizio inconsapevoli da cui scaturiscono le varie forme di discriminazione.
Ne abbiamo parlato con Judith Waldmann, curatrice responsabile delle mostre d’arte contemporanea di Kunst Meran Merano Arte.

Martina Oberprantacher e Judith Waldmann . Photo Ivo Corrà

Martina Oberprantacher e Judith Waldmann . Photo Ivo Corrà

INTERVISTA A JUDITH WALDMANN

La mostra Turning Pain Into Power verte sul tema delle discriminazioni, proponendo una serie di focus su tematiche come il razzismo, l’omofobia, la violenza di genere. Da cosa è scaturita questa scelta curatoriale?
I tempi in cui viviamo ci obbligano ad affrontare queste questioni. Sempre più spesso assistiamo alla proliferazione di rappresentazioni del nemico, strumentalizzate e esacerbate dalla politica per fomentare paure e rafforzare posizioni di potere. La nostra società è profondamente divisa. I pregiudizi, la paura dell’avvicinarsi, le discriminazioni non fanno altro che rendere più profonda questa spaccatura. Per crescere insieme come società e per essere in grado di affrontare il futuro dovremmo tendere alla coesione anziché alla discordia. Solo restando uniti saremo in grado di affrontate grandi sfide, come il cambiamento climatico o la guerra. Tutte le persone dovrebbero sentirsi accettate per contribuire in modo libero alla nostra società.

In quale maniera è intesa questa possibile trasformazione che, come espresso dal titolo fortemente evocativo, dal dolore porta a una forma di “forza”?
La mia speranza è che questa mostra possa aprire nuove prospettive e stimoli, confronti e dibattiti. Molti artisti e artiste esposti hanno vissuto in prima persona forme di discriminazione e mostrano le proprie vulnerabilità. Rendersi vulnerabili, quindi anche attaccabili è, a mio avviso, uno degli strumenti più forti e incisivi per “trasformare il dolore in forza”. Al contempo, vengono anche proposti approcci incredibilmente creativi e consapevoli che incitano a “non tenere la bocca chiusa” e a non accettare silenziosamente e passivamente le forme di ingiustizia. Attraverso questa mostra, per noi era importante non solo sottolineare le iniquità ma anche proporre strategie forti, talvolta anche ironiche e spesso toccanti, per affrontarle.

In apertura del percorso espositivo troviamo un lavoro di Monica Bonvicini legato alla libertà di espressione, I won’t shut up, posto in relazione con una serie di report di associazioni come FREEMUSE da cui emerge come questo diritto sia spesso minacciato. Perché la scelta di partire da questo lavoro e come si pone in relazione al resto della mostra?
Il motto proposto da Monica Bonvicini è il filo conduttore di tutta la mostra e, per certi aspetti, avrebbe anche potuto costituirne un altro titolo appropriato. Attraverso differenti strategie – rumorose, silenziose, provocatorie, riservate –, ogni singola opera in mostra “alza la voce” per sostenere una posizione o mettere in luce una forma di iniquità. Ad esempio Giuseppe Stampone propone una serie di personaggi storici,
come Martin Luther King, Nelson Mandela o Tommie Smith, che si sono battuti per la tolleranza e la giustizia sociale nonostante le avversità incontrate.
Le My Calling (Card) #1 e #2 di Adrian Piper sono delle carte da visita che possono essere prese e portate con sé dai visitatori e dalle visitatrici e consegnate in caso di situazioni di razzismo o molestia. Si tratta di un atto efficace che permette, senza doversi confrontare direttamente con potenziali aggressori, di non far passare sotto silenzio una situazione grave. Philipp Gufler mostra invece, in uno dei suoi lavori, la fotografia di uno striscione su cui è scritto: “Chi tace sui crimini rivolti contro gli omosessuali, finisce per approvarli”. Questa frase si riferisce al fatto che far passare sotto silenzio situazioni di ingiustizia può essere una forma di complicità. In mostra è affrontato, al contempo, come il silenzio possa essere dovuto ad altre ragioni, quali la paura di violenza o ripercussioni.

Monica Bonvicini, Turning pain into power, exhibition view at Kunst Merano Arte. Photo Ivo Corrà

Monica Bonvicini, Turning pain into power, exhibition view at Kunst Merano Arte. Photo Ivo Corrà

LE OPERE IN MOSTRA NEGLI SPAZI DI KUNST MERAN MERANO ARTE

Alcuni lavori, come quelli di Paulo Nazareth, Cana Bilir-Meier o Philipp Gufler, rendono visibili narrazioni del passato che contrastano le rappresentazioni storiche dominanti. Altri invece toccano questioni di estrema attualità, arrivando anche al conflitto russo-ucraino. Può parlarci di questi differenti approcci?
Trovo che Philipp Gufler abbia spiegato molto bene questo rapporto tra il passato e il presente affermando: “Nel trattare la storia delle persone queer, ci preoccupiamo anche di quelle del futuro. Per me, questo significa solidarietà intergenerazionale per un futuro queer”. La storiografia non è qualcosa di statico o di universale, ma di fluido e frammentato, che dice molto su chi era al potere in un determinato momento. Spesso presenta lacune e punti ciechi che possono essere riportati alla luce retrospettivamente, come proposto appunto dagli artisti e dalle artiste che lei cita. Il fatto che nei nostri libri di storia si trovino poche informazioni sulle comunità queer non è ovviamente dovuto a una loro inesistenza in passato, quanto piuttosto al fatto che siano state socialmente represse e non abbiano quindi avuto la libertà e “il potere” di lasciare un segno nella storiografia ufficiale. Un lavoro di recupero porta quindi a colmare questi vuoti e a raccontare queste vite.
In questo momento, in cui la guerra e le crisi stanno rendendo la vita un inferno a moltissime persone in tutto il mondo, siamo molto felici di proporre anche uno degli Anti-War Drawings di Dan Perjovschi, un segnale antibellico collocato in uno spazio centrale nella Kunsthaus.

Come nelle sue precedenti mostre, anche in questo caso è previsto un coinvolgimento diretto dei visitatori, in particolare in relazione alle Calling Cards di Adrian Piper. Da cosa nasce questa scelta? Qual è la risposta da parte del pubblico?
Il team di Merano Arte ha assunto l’impegno di coinvolgere i visitatori e le visitatrici nel proprio programma espositivo, permettendo loro di esprimersi liberamente sulle tematiche affrontate. Siamo molto interessati ai feedback e alle opinioni del nostro pubblico. Con la mostra TOGETHER. Interact – Interfere – Interplay la serietà, l’intensità e la pertinenza di questi riscontri sono state impressionanti. Riteniamo che coinvolgere, dare visibilità e prendere sul serio i visitatori e le visitatrici sia un passaggio fondamentale, anche per permettere di esprimere il proprio punto di vista in mostra non solo ad artisti e curatori.

Con The Poetry of Translation ha inaugurato la sua direzione curatoriale di Merano Arte, proponendo la traduzione come strumento di indagine non solo in relazione ad aspetti linguistici ma anche legati all’identità, al multiculturalismo e alla diversità. Con la mostra successiva, TOGETHER, ha posto invece al centro l’idea di collettività, indagata in modo partecipato e interattivo. Come si pone questa mostra in relazione alle due precedenti, e quali sono gli ulteriori sviluppi pensati per il futuro?
Per la direttrice Martina Oberprantacher, così come per Ursula Schnitzer, Anna Zinelli e per me, è importante rafforzare un discorso critico contro le discriminazioni e su tematiche sociopolitiche. Ciò che accomuna le tre mostre da lei citate – The Poetry of Translation, TOGETHER e Turning Pain Into Power – è la speranza che i diversi gruppi attraverso cui si compone la società siano più uniti anziché divisi. Si tratta quindi sempre di prese di posizione, da parte della Kunsthaus come istituzione, contro ogni forma di discriminazione, espresse non solo a parole, ma dimostrate attraverso la sezione delle ricerche artistiche.
Senza entrare troppo nello specifico, l’anno prossimo porteremo avanti questo approccio attraverso grandi artisti che si allontanano da posizioni mainstream e che ci renderanno partecipi di una diversa visione del mondo.

Valentina Rossi

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Valentina Rossi

Valentina Rossi

Valentina Rossi è dottore di ricerca all’Università di Parma, storica dell’arte e curatrice. Assegnista di ricerca nel 2020-2021 e borsista di ricerca nel 2022, è laureata al DAMS di Bologna e negli anni ha collaborato con varie istituzioni museali per…

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