Non si può certo dire che Lucio Saffaro (Trieste, 1929 ‒ Bologna, 1998) sia stato un artista “omologato”. La sua figura, la sua opera e la sua ricerca teorica sfuggono a qualsiasi categoria e lui stesso rifiutò molte delle definizioni che ai suoi tempi i critici cercavano di cucirgli addosso, come quella di “artista-matematico”. L’unica, forse, che accettò di buon grado, anzi gli piacque parecchio, fu quella che gli attribuì l’amico Bruno D’Amore, che per i suoi incessanti, innovativi studi sui poliedri lo chiamava “l’ultimo artista del Rinascimento”.
Gli piaceva tutto ciò che era irriverente, antiaccademico, inatteso, racconta ancora D’Amore: un soggetto non facile insomma, senza dubbio tenace e che dedicò la sua vita a temi e immagini che lo hanno posto in un certo senso fuori dal suo tempo, o per meglio dire fuori dal tempo.

LA STORIA DI LUCIO SAFFARO
Saffaro nacque a Trieste nel 1929. Si laureò in Fisica pura all’Università di Bologna e per tutta la vita si dedicò alla scrittura, alla poesia, alla matematica e, ça va sans dire, alla pittura. Pubblicò molti contributi sulle riviste di matematica, definendo “nuove classi di poliedri con proprietà sconcertanti e affascinanti dal punto di vista propriamente matematico”, ricorda ancora D’Amore. Oggi chi ha studiato Saffaro identifica alcuni nuclei tematici che si esplicitano in tutta la sua opera: i concetti di tempo, spazio, essere e tristezza. Come pittore, riuscì a esporre alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma, ricevendo premi internazionali alle Biennali di San Paolo del Brasile (1969), di Rijeka (1970) e Cracovia (1972). A Bologna, città dove scelse di vivere, nel 1999 fu costituita su volontà dello stesso artista una Fondazione che ora conserva e valorizza il suo percorso artistico e non solo.

LA MOSTRA SU LUCIO SAFFARO A TRIESTE
La mostra di Trieste ripercorre sinteticamente e mediante dipinti significativi le varie fasi del linguaggio artistico di Saffaro, per focalizzarsi poi sul suo legame mai sciolto con la città giuliana. I primi disegni risalgono al 1949 e le prime tele, con i loro colori sgargianti e le forme sintetiche, non possono non ricordare i grandi Maestri del Novecento – ci perdoni Saffaro, che probabilmente non gradirebbe l’accostamento: Joan Miró, Paul Klee, ma anche Max Ernst e Giorgio de Chirico. Dai primi Anni Sessanta la geometria comincia però a invadere la superficie del dipinto, fino a diventare protagonista assoluta. Ecco allora che le forme diventano ancor più sintetiche e fanno capolino gli amati poliedri, che si associano a titoli utili a comprendere il legame strettissimo con la classicità, dall’antica Grecia al Rinascimento europeo (bastino La stella di Origene, Il tempio di Talete, Il Graal di Dürer, Lo specchio di Vermeer). Del resto i poliedri hanno affascinato molti artisti, come sottolinea D’Amore che cita Leonardo, Piero della Francesca, lo stesso Dürer.
TRIESTE SECONDO SAFFARO
Forse meno esplicita, ma innegabile, è la presenza la luce di Trieste, che si riflette nella pietra d’Istria e che colora il mare del golfo di un blu intenso, come quello che Saffaro usa spesso nelle sue opere, digradandolo in azzurri e indaco che emergono da fondi in scala di grigio. Una interpretazione forzata? Anche in questo caso sono i titoli a guidarci nella comprensione delle intenzioni dell’artista: Meditazione sul Golfo di Trieste, L’urna del mare, L’icosaedro marino.
“In Trieste, la città dai cieli grigio-azzurri, Saffaro riconosceva il luogo eletto, dove il mare si trasformava nella sua astrazione e in cui il ‘mistero esistenziale’, da sempre, aveva avuto origine”, conclude Gisella Vismara nel catalogo della mostra.
‒ Marta Santacatterina
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