La Biennale di Sao Paulo sta per aprire. Intervista al curatore italiano Jacopo Crivelli Visconti

Alla vigilia della nuova edizione della Biennale di San Paolo, abbiamo incontrato il curatore Jacopo Crivelli Visconti, alle prese con l'allestimento, per approfondire l'organizzazione e le tematiche alla base di questa importante manifestazione artistica dell'America Latina

All’alba della trentaquattresima edizione della Biennale di São Paulo Faz escuro mas eu canto, in programma dal 4 settembre al 5 dicembre 2021, abbiamo intervistato il suo curatore, l’italiano Jacopo Crivelli Visconti. Questa edizione, che segna il 70esimo compleanno della manifestazione, non avrà un concept “portante”, ma un quadro tematico desunto da Poetics of Relation di Edouard Glissant, riflettendo su come l’identità si forma nella relazione, e non nell’isolamento. Di questo e di altri aspetti della Biennale abbiamo parlato approfonditamente con Crivelli Visconti.

Belkis Ayón, La Cena [The supper], 1991 Photo: José A. Figueroa. Courtesy of the Belkis Ayón Estate

Belkis Ayon_The supper 1988

Com’è dirigere una Biennale così importante? Quali sono le responsabilità alle quali senti di dover rispondere con prontezza?

Le biennali sono mostre di arte contemporanea che trascendono l’ambito sociale consueto in cui si svolgono le esposizioni. Solitamente, in questi contesti accedono persone del settore che riescono a cogliere collegamenti interni alle opere.
La Biennale di São Paulo è una mostra che è stata visitata anche da un milione di persone, per cui si tratta di un pubblico ampio e diversificato. Ha un impatto sociale nella costruzione dell’immaginario culturale brasiliano e latino americano. L’influenza che ne deriva si rafforza così come si moltiplicano le responsabilità, soprattutto in un momento duro di conflitto e di tensione come quello che stiamo vivendo, sia a causa della pandemia sia per questioni sociali, politiche o di altra natura.

 

Come avete scelto i 91 artisti, soprattutto quelli che rappresentano le comunità indigene?

Non abbiamo lavorato su un tema, ma abbiamo perseguito una metodologia. L’idea era aprire una mostra annuale con una costellazione di esposizioni individuali, grandi performance e collaborazioni con istituzioni della città. L’essere supportato da un team è stato fondamentale, abbiamo discusso in diverse chiamate Skype, organizzato dense riunioni in cui ognuno ha proposto una serie di artisti e di opere che credeva avesse un senso mostrare in questo momento specifico in Brasile. Sono stati piantati dei semi che hanno costituito i nuclei-margini concettuali della Biennale. Si percepiscono relazioni anche molto forti tra lavori e artisti diversi: in questo frangente la presenza di artisti indigeni è fondamentale. In tal modo visioni di mondo diverse convergono e creano significati inimmaginabili.

Arjan Martins, Atlantic, 2016 Photo: Pepe Schettino, Courtesy of the artist

Arjan Martins, Atlantic, 2016 Photo: Pepe Schettino, Courtesy of the artist

Quali artisti per te incarnano maggiormente i valori di questa edizione?

È difficile fare nomi, ovviamente. Ma per ragioni anche molto diverse direi Carmela Gross, Manthia Diawara e Jaider Esbell.

Come si struttura l’organizzazione di una manifestazione così importante?

La struttura alla base è ricca di esperienza: la logistica, la produzione, la parte editoriale… Non credo ci sia un’unica soluzione o formato che funzioni a priori nella costituzione di una mostra come questa. È proprio perché la struttura è così solida che si riesce a donare autonomia ad un team di curatori con progetti variabili. La nostra proposta di espandere la mostra nello spazio e nel tempo, lavorando in maniera corale, è qualcosa di totalmente diverso rispetto a ciò che era stato proposto negli anni passati. Questo mi ha permesso di lavorare in maniera non convenzionale.

 

Parlando del titolo della Biennale, Faz escuro mas eu canto, come mai hai scelto il canto come fil rouge, soprattutto in qualità di resistenza personale a situazioni traumatiche e allarmanti?

Il canto è desunto da un verso di Thiago de Mello, poeta dell’Amazzonia che scrisse un componimento nel 1962, subito prima dell’avvento della dittatura militare nel paese ma in un contesto storico già di grande polarizzazione, in un certo modo analogo a quello attuale brasiliano. Il verso si divide in due parti: nella prima afferma “faz escuro”, cioè stiamo vivendo un momento estremamente difficile da affrontare; nella seconda parte si eleva il grido “ma io canto”. Non si tratta di un canto simbolico e metaforico alienato dalla realtà, al contrario, l’autore difende il valore dello spazio creativo e della produzione poetica, soprattutto nel manifestarsi di gravi problematicità. Questa ci sembrava una metafora molto adatta a rappresentare la Biennale.

Olivia Plender, Hold Hold Fire, 2019 Video still Courtesy of the artist

Olivia Plender, Hold Hold Fire, 2019
Video still Courtesy of the artist

Come sei giunto ad avvalerti di un quadro tematico che si ispira a Poetics of Relation di Edouard Glissant per poi affrontare le macro-aree “dislocamento di persone”, “esperienza indigena”, “messa in discussione del genere e dell’identità”?

Le questioni come la “dislocazione” e la “circolazione” sono sorte a poco a poco e si sono consolidate partendo dall’analisi delle opere che ci sembravano più interessanti. Non sono un punto di partenza ma neanche un punto di arrivo, il processo è ancora fluido e in corso, così come sosteneva Edouard Glissant in Poetics of Relation. La relazione non è solo il legante ma lo strumento usato per strutturare la mostra in maniera che non si senta una voce unica. Il pensiero non sorge da una singola radice ma è il frutto dell’incontro/scontro di vari modi di pensare e vedere il mondo. Ciò può essere evidente nella relazione di un artista indigeno con uno europeo. Abbiamo costruito la mostra in uno stato di apertura e permeabilità, pronta a rispondere al contesto esterno, una biennale che non fosse in alcun modo un’entità autonoma e slegata dal resto. Il cambiamento della situazione sociale e politica che stiamo attraversando non fa che aggiungere pertinenza alla nostra strategia curatoriale.

 

Cosa ti aspetti dai visitatori della Biennale?

Vogliamo che i visitatori si approccino alle opere in maniera libera e personale. Non c’è alcuna aspettativa ma c’è la speranza che si possa contribuire alla formazione di una società brasiliana in cui le persone siano coscienti dell’immensa varietà delle visioni del mondo che esistono. Per chi segue l’arte contemporanea più da vicino o per chi ha un interesse acceso per l’attualità, può sembrare qualcosa di assodato ma non lo è per chi frequenta la biennale come evento culturale in generale. Sono concetti che non sono così banali ed è per questo che credo sia fondamentale insistere.

 

 —Giorgia Basili

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Giorgia Basili

Giorgia Basili

Giorgia Basili (Roma, 1992) è laureata in Scienze dei Beni Culturali con una tesi sulla Satira della Pittura di Salvator Rosa, che si snoda su un triplice interesse: letterario, artistico e iconologico. Si è spe-cializzata in Storia dell'Arte alla Sapienza…

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