Un dialogo attraente quello che vede protagoniste l’esuberante e colorata pittura di Massimo Kaufmann (Milano, 1963) e le evocative sculture di Gonçalo Mabunda (Maputo, Mozambico, 1975), che induce a domandarsi le motivazioni alla base di tale accostamento.
La vena astratta del pittore milanese è evidente: non vuole raccontare storie o descrivere realtà, ma veicolare un’impersonale visione delle cose in opere prive di simbolismi. Le sculture di Mabunda, invece, svelano, a uno sguardo più attento, la loro vera peculiarità: si tratta di opere create utilizzando materiali bellici che vengono smontanti e poi ricomposti in forme differenti. Si scorgono proiettili, fucili, razzi, parti di mitragliatrici. La sua è una ferma condanna delle atrocità di una guerra civile che per sedici anni ha insanguinato il suo Paese, ma questa viene condotta e ultimata attraverso il raggiungimento di nuovi significati creativi e possibilità di interpretazione che non ne smorzano mai la potenza.
Il risultato appare chiaro: i ferrosi e apparentemente freddi scarti bellici diventano grottesche ed espressive maschere tribali e troni simbolici e parodistici; i lirici e apparentemente caldi dipinti di Kaufmann si fanno anch’essi qualcosa d’altro, acquisendo spesso qualità tattili e riflettendo un ordine e una sistematicità del gesto non indifferente.
‒ Giulia Pacelli
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