Il collezionista di ossa. Il caso dell’artista omicida-suicida Saul Fletcher

Il veneziano Palazzo Grassi ha scelto di rimuovere dalla mostra allestita, e ora chiusa, a Punta della Dogana l’opera di Saul Fletcher, che lo scorso luglio ha assassinato la compagna, la curatrice Rebecca Blum, e si è tolto la vita. Giusta decisione?

Non ci siamo ancora ripresi dallo yacht di Banksy, che invece di veleggiare per la Martinica va a salvare migranti a Lampedusa, che ecco ne salta fuori un’altra. E il caso è, se possibile, ancora più ghiotto, ancora più favolosamente appetitoso per gli eterni/istantanei dibattiti da social. In sintesi, l’artista britannico Saul Fletcher, presente con una grande installazione alla Punta della Dogana di Venezia (Fondazione Pinault) nell’ambito della collettiva Untitled 2020, ha ucciso lo scorso 22 luglio, a Berlino, la compagna, la storica dell’arte e curatrice statunitense Rebeccah Blum, per poi togliersi la vita.

LA SCELTA DI PALAZZO GRASSI A VENEZIA

Come conseguenza del femminicidio di Fletcher, Punta della Dogana ha ritirato l’opera del fotografo britannico, aggiungendo una scarna nota nel proprio sito in cui si afferma che “Palazzo Grassi – Punta della Dogana ha deciso di rimuovere l’opera dell’artista Saul Fletcher nel rispetto della memoria di Rebeccah Blum, per esprimere solidarietà nei confronti di tutte le donne oggetto di violenza” (così la pagina web il 4 settembre 2020). La gallerista Alison Jacques, che aveva Fletcher tra i propri artisti, ha scelto immediatamente di fare lo stesso, non solo ritirando le sue opere, ma addirittura cancellando tutte le tracce dell’artista dal suo sito.
Queste decisioni hanno innescato la tipica controversia virtuale: è giusto rimuovere le opere e la memoria di esse se l’artista che le ha fatte si è macchiato di una grave colpa? Oppure no, dato che l’opera è un prodotto che una volta uscito dallo studio vive una vita indipendente? Hanno ragione Punta della Dogana e la Jacques oppure gli artisti e i curatori che invece hanno protestato definendo queste scelte “censura”? O anche: non dovremmo fare una seria riflessione etica sui valori che intendiamo trasmettere con l’arte (e di conseguenza è sacrosanto togliere l’opera di Fletcher e anzi cancellarne le tracce), oppure quel che conta è solo l’arte, e quindi se il lavoro di Fletcher era interessante prima che diventasse un femminicida, logicamente lo resta anche dopo?
Quello che hanno di bello (e atroce) queste domande, è che esse ci spingono, anzi ci obbligano, a prendere partito: con un like o con un tweet, con una riflessione a caldo o con un articolo ben ponderato, nessuno vuole che usciamo dall’alternativa secca: sei a favore o sei contro? Voti sì o voti no? Da che parte stai?

È giusto rimuovere le opere e la memoria di esse se l’artista che le ha fatte si è macchiato di una grave colpa?

Tuttavia, è esattamente qui che dovremmo esitare. Non è che tra il sì e il no ci sia una terza alternativa: è che questa logica spietatamente (barra ingenuamente) binaria non dice tutto, anzi offusca proprio il punto su cui dovremmo sforzarci di tenere estremamente vigile la nostra attenzione. Facciamo un esperimento mentale: se Fletcher fosse stato uno sconosciuto poeta interesserebbe a qualcuno se le sue poesie fossero tolte da un’oscura antologia letteraria londinese? E se fosse stato invece uno scienziato, saremmo disposti a distruggere e cancellare le sue scoperte, magari fondamentali? Ma Fletcher (abbastanza conosciuto e ben rappresentato, ma non una star) era diventato improvvisamente più noto di quanto non fosse proprio grazie alla Fondazione Pinault. È evidente che i partigiani del “teniamolo” e quelli del “togliamolo”, pur immaginandosi di avere opinioni diverse – anzi opposte –, condividono inconsapevolmente il medesimo frame, l’invisibile cornice ideologica di riferimento. Per entrambi, quel che ha davvero significato è essere selezionati da Pinault: per tutti, anzi, il vero senso di un’opera non risiede in se stessa, ma nel prestigio (sovente semplicemente economico) di chi la espone. Nel comunicato della Fondazione Pinault un dettaglio è rivelatore: “Palazzo Grassi ha deciso…”, si dice, come se “Palazzo Grassi” non fosse semplicemente la sede fisica di una mostra, ma una sorta di Istituzione dotata di una propria, quasi divina, volontà, in grado di esprimere giudizi in terza persona e prendere decisioni indipendentemente da ogni ingerenza umana – al di là, ad esempio, di ogni responsabilità curatoriale.

Searching Saul Fletcher on Google. Screenshot di Marco Senaldi

Searching Saul Fletcher on Google. Screenshot di Marco Senaldi

OPERE D’ARTE E PSICOLOGIA

Le cose insomma vanno un po’ come in The Square, il film di Ruben Östlund del 2017, in cui artisti e curatori sono politicamente così corretti, che poi se ne fregano altamente di un povero cristo che chiede l’elemosina. Ma c’è di più: questa cecità nei confronti dello sfondo ideologico si riflette nell’incapacità totale di osservare davvero lo specifico che si ha davanti, di “guardare dentro” le opere d’arte: e, forse, se uno psicologo avesse scrutato in quelle di Fletcher, vi avrebbe trovato le tracce di un potenziale collezionista di ossa.

Marco Senaldi

ACQUISTA QUI il catalogo della Collezione Pinault

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #56

Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Marco Senaldi

Marco Senaldi

Marco Senaldi, PhD, filosofo, curatore e teorico d’arte contemporanea, ha insegnato in varie istituzioni accademiche tra cui Università di Milano Bicocca, IULM di Milano, FMAV di Modena. È docente di Teoria e metodo dei Media presso Accademia di Brera, Milano…

Scopri di più