“Quel che accadde un tempo ai Padri, accade ancora, accade sempre a chiunque che, scrivendo, si ponga non altrettanti fini specifici d’arte pura o di poesia pura, come suol dirsi; bensì unicamente di servire, utilmente servire, umilmente servire, la Verità; anche quella con la ‘v’ minuscola, che potrebbe essere appena una minuscola porzione”.
La definizione di “letizia” – citando sopra gli Scritti d’occasione del teologo e filosofo inglese John Henry Newman – è lo scheletro delle opere di Mario Airò (Pavia, 1961); non in quanto soggetto, ma in quanto pratica quotidiana, paziente e ricercata, attraverso la quale si levigano le idee dalla mente al mondo. Si tratta infatti di sculture e installazioni che hanno richiesto all’artista concentrazione e silenzio; un labor limae nato dall’osservazione lenta e muta dello scorrere del tempo, come il frate “in contemplazione di Dio” o il “monaco buddista in meditazione del vuoto”. Ben si presta all’interpretazione di tale spiritualità, libera e atavica, il segno sull’acqua, simulato o reale: nella scultura Modellare l’acqua, una serie di petali in ceramica bianca sospesi è percorsa da un rivolo d’acqua, raccolto infine in un lavandino; in Reflets dans l’eau, il compensato marino reagisce alla tempera gialla, imitando i ramificati guizzi di luce sull’acqua in movimento. Infine, anche il paesaggio acquatico viene piegato all’esigenza di riflessione oltre il normale orizzonte, coinvolgendo gli stessi osservatori: Dolmen (Lo scoglio di Rapallo dove Ezra guardava lontano) è un frottage plastificato di uno scoglio, montato su una panca di legno su cui è permesso sedersi. Una condivisione sull’orlo degli enti visibili, già d’esempio per approcci futuri.
‒ Federica Maria Giallombardo