Il ritmo del cervello. Intervista a Jan Fabre

Palazzo Merulana, a Roma, accoglie le riflessioni di Jan Fabre attorno alla bellezza di uno dei nostri organi più complessi: il cervello.

Nel nuovo spazio di Palazzo Merulana, progetto fortemente voluto e portato avanti da Claudio ed Elena Cerasi e CoopCulture per rinnovare un luogo altrimenti abbandonato, ha inaugurato The Rhythm of the Brain, mostra personale di Jan Fabre (Anversa, 1958), in collaborazione con Romaeuropa Festival.
Fabre porta nella sua opera la proprietà di linguaggio, come l’arte porta ossigeno al cervello, muscolo atrofizzato”, commenta il curatore Achille Bonito Oliva, mentre Melania Rossi, co-curatrice, usa come modello la risposta di Felice Casorati alla critica mossagli di promuovere una pittura troppo cerebrale e decorativa: “Sono felice di avere un cervello che funziona. Il cervello è il centro del mondo”.

L’INTERVISTA

Sei stato molto impegnato con la politica. Pensi di essere riuscito, in questa mostra, a esprimere anche la tua etica e i tuoi ideali?
Credo fermamente nel potere della bellezza. La bellezza è “convergenza” tra valori etici e principi estetici. Pur nella sua qualità sovversiva, mira sempre alla riconciliazione. Mi soffermo sull’idea della concordanza, specialmente in questa mostra.

In che modo?
Puoi vedere materiali differenti (bronzo, cera, disegni, film-performance), linguaggi diversi, molti campi di ricerca (scienza, storia dell’arte). Sono un “consilience artist”, per me la stessa definizione di arte è allo stesso tempo politica e filosofica, in quanto difende l’idea di umanesimo. La mente umana è il primo simbolo di umanità.

Come si traduce questa idea nel mondo?
Per me consiste in una sorta di nazione utopica, una nazione ancora da scoprire nella sua interezza, ancora da mappare. C’è sempre qualcosa di politico quando ci si trova a interagire, scendere a patti, con una terra sconosciuta, ancora “vergine”, un’anarchia organizzata scaturisce bellezza, orrore, conoscenza e ogni cosa che contribuisce a renderci umani.

Jan Fabre, The Sound of the Brain, 2019. Photo Pat Verbruggen © Angelos bvba. Courtesy Palazzo Merulana, Roma

Jan Fabre, The Sound of the Brain, 2019. Photo Pat Verbruggen © Angelos bvba. Courtesy Palazzo Merulana, Roma

Che cosa ti affascina del cervello?
Anche oggi gli scienziati studiano il cervello umano e lo comparano a quello animale, cercando connessioni che sollevino nuove interpretazioni, ciononostante il cervello mantiene il suo statuto libertario: non è pienamente esplicabile. Questo è ciò che ho scoperto, collaborando per esempio con il neuroscenziato Giacomo Rizzolatti.

Ricordaci il suo ruolo.
Lui è il promotore di una profonda e articolata ricerca sui neuroni specchio, che può dare impulso a una nuova, ricca e contemporanea interpretazione dell’empatia, imitazione e compassione quali costruzioni elaborate dalla mente. Il film-performance Do we feel with our brain and our heart?, frutto della collaborazione con Rizzolatti, è parte dell’esposizione. Per definizione, tutta la mia arte contiene l’idea di consapevolezza e di dibattito, discorso politico. Quale approccio critico esplicito, interpretativo e descrittivo; o come veicolo espressivo con il quale trascendere la politica. Celebrare e onorare la parte più sexy del nostro corpo, il cervello, significa privilegiare una mente aperta e critica.

Si può dire che lavori spesso sul concetto di identità, non solo nei tuoi autoritratti ma anche nelle tue ideazioni teatrali, l’identità nazionale, il bagaglio culturale, le relazioni tra presente e passato. In cosa vedi il tuo essere belga?
Sono un artista belga. Figlio della bellissima anarchia belga dell’amore. Mia madre proveniva da una famiglia di lingua francese, borghese e cattolica. Mio padre da una famiglia fiamminga povera e comunista. Quando ero piccolo, durante le cene, mia madre mi traduceva la poesia di Rimbaud, Baudelaire, Maeterlinck, le canzoni francesi di Georges Brassens, Jacques Brel, Edith Piaf… mi ha donato l’amore per questa lingua.

E tuo padre?
Aveva studiato all’Accademia di Belle Arti di Anversa ed era un valido disegnatore classico, mi portava allo zoo per disegnare uomini e animali. Andavamo alla casa di Rubens per copiarne dipinti e disegni. Quindi mi ha tramandato l’amore per l’immagine. Credo che la sintonia tra immagine e lingua sia un tratto tipico della storia dell’arte belga. I maestri fiamminghi come Rubens, van Eyck, van Dyck, Jordaens sono una fonte d’ispirazione per il mio lavoro attuale, dunque le mie radici artistiche sono profondamente fiamminghe. Eppure rigetto chiaramente l’estremo nazionalismo e il partito di destra estremista che sta prendendo piede nella parte fiamminga del Belgio. Questo sviluppo è pericoloso a tutti i livelli della società.

Jan Fabre, Jumping brain legs, 2009. Photo Pat Verbruggen © Angelos bvba. Courtesy Palazzo Merulana, Roma

Jan Fabre, Jumping brain legs, 2009. Photo Pat Verbruggen © Angelos bvba. Courtesy Palazzo Merulana, Roma

In un’intervista hai parlato di metamorfosi e fuga dal sistema. Intendi anche dal sistema dell’arte o pensi che non si possa prescindere dai meccanismi del mercato?
Nella mia vita ci sono sempre state due scelte: diventare un bravo artista o un gangster. L’idea di fuga e metamorfosi deriva dalle mie radici e dalla mia storia personale, ma anche da alcune figure nella storia che hanno ispirato il mio lavoro. In questa mostra sono presenti due busti omaggio a Jacques Mesrine, che rappresenta ai miei occhi una persona appassionata, sopravvissuta agli ostacoli e capace di raggirare le regole e sfuggire alle grinfie delle istituzioni. Recentemente, ho presentato una mostra intitolata There is no Escape from Art al Sofia Arsenale ‒ Museo di Arte Contemporanea (SAMCA), curata da Joanna De Vos, che ha raccolto un unico insieme di performance/film, disegni, fotografia e sculture sulla ricerca dell’identità dell’artista e dell’arte.

Ma la questione del mercato?
Nell’attuale mondo dell’arte, il mercato gioca un ruolo fondamentale, sicuramente influenza fino a determinare le scelte del sistema artistico. Eppure, nella mia esperienza, sono stato fortunato a incontrare persone intelligenti, autentiche amanti dell’arte, collezionisti, galleristi, amici artisti, curatori che hanno sempre posto la qualità e sincerità del lavoro al primo posto rispetto alle leggi del mercato. Il mercato fluttua, non è una base stabile sulla quale sviluppare il lavoro di un artista. All’inizio della mia carriera facevo performance durante le quali bruciavo banconote, sono stato attaccato e criticato da molte persone per anni prima di raggiungere dei risultati soddisfacenti. Quindi sì, il mercato esiste e in quanto artisti bisogna esserne consapevoli, ma non ci si deve mai abbandonare al cinismo del mercato.

Mi ricordo la performance Ilad of the Bicart e il fatto che collezioni disegni belgi: il disegno sembra avere un ruolo essenziale in questa mostra.
Il disegno è considerato solitamente come la personale calligrafia di un artista ed è il bozzetto o lo studio preparatorio di un dipinto o di una scultura. Con un paio di linee si possono suggerire il volume, la dimensione, lo spazio, l’ombra. Ho ribaltato quest’idea mettendo il disegno al centro della mia ricerca, quale genere autonomo.

Facci qualche esempio.
Per dire, insieme ai miei assistenti ho disegnato 10mila linee su una superficie, creando un piano di campi energetici indefiniti. Da questi emergevano alcuni segni, dovevo solo accentuarli con la penna a sfera e, poiché il suo inchiostro ha una reazione chimica sulla superficie (carta, legno ecc.), anche i disegni cambiavano colore, a volte erano più verdi, più rossi, più blu. In The Bic Art Room (1981), una sorta di Grande Fratello ante litteram, mi sono rinchiuso per tre giorni e tre notti in una stanza completamente bianca, con vestiti bianchi, consumando cibo bianco. Ho coltivato la noia come fonte artistica. Ho coperto la stanza e me stesso con parole, scarabocchi e disegni.

Jan Fabre, To Wear One’s Brain On One’s Head (By a Small Artist), 2018. Photo Pat Verbruggen © Angelos bvba. Courtesy Palazzo Merulana, Roma

Jan Fabre, To Wear One’s Brain On One’s Head (By a Small Artist), 2018. Photo Pat Verbruggen © Angelos bvba. Courtesy Palazzo Merulana, Roma

Qual era il tuo intento?
Volevo sottopormi a una serie di esperimenti mentali e fisici, ma anche sperimentare il medium del disegno, sentire cosa significa trasformarsi in una “macchina da disegno”. Volevo esplorare l’idea di essere rinchiuso in una prigione e iniziare a disegnare per inerzia. Più tardi è arrivato il piacere e di conseguenza un fiume di segni. Alla fine mi sono trasfigurato in una macchina, sono riuscito a rimanere sveglio durante l’intera performance, ho iniziato ad agire in maniera più lucida. Sono un nano nato in un paese di giganti. Anche scoprire il genio di Hieronymus Bosch ha avuto un impatto enorme.

Che rapporto hai con la sua opera?
Bosch è così brillante, fantasioso, audace e sovversivo… Quando vedi un dipinto di Bosch senti quanto sia incredibilmente all’avanguardia rispetto a tanta arte contemporanea. Rubo molto a questo artista, è un modo per appagare il mio rispetto per la tradizione. È anche il motivo per cui adoro circondarmi e tappezzare il mio studio di copie dei suoi dipinti. Disegno e scrivo continuamente, soprattutto di notte, è il punto di partenza e di arrivo di tutte le mie ricerche. In questa mostra è presente una selezione di disegni nei quali ho raccontato l’esperienza con il neuroscienziato Rizzolatti, rappresentando a matita su carta fotografica interpretazioni e possibili associazioni tra questo pianeta sconosciuto che è il nostro cervello e il nostro corpo alle prese con le funzioni vitali e la realtà in cui siamo immersi.

Torniamo alla tua collezione di disegni.
Sono un collezionista di disegni belgi. Grazie al supporto del mio gallerista Ronny Van de Velde ho scambiato i miei disegni con quelli di James Ensor, René Magritte, Léon Spilliaert. Allo stesso modo li scambio anche con i miei colleghi viventi come Luc Tuymans, Michaël Borremans, Panamarenko, Kris Martin. Adoro i disegni, contengono la genetica e il pensiero di un artista!

Cosa rappresentano gli Anni Venti per te nel mondo dell’arte?
Il periodo storico a cui appartiene la maggior parte delle opere della bellissima collezione Cerasi, esposta a Palazzo Merulana, è un periodo difficile, di grandi contrasti. In questo senso il Belgio e l’Italia hanno una storia simile: gli anni dell’avanzata dei partiti nazionalisti, dell’occupazione, gli anni tra le guerre mondiali. Sebbene con molte differenze, dovute ai diversi tratti caratteriali del popolo italiano e fiammingo, nell’arte trovo molti punti di contatto. L’arte italiana ha una luminosità che, anche per ragioni geografiche, non si trova in quella fiamminga. Nonostante questo, ho notato una forte spinta surrealista nel de Chirico della collezione Cerasi, quasi magrittiana, molto vicina al mio spirito.

Come hai trovato gli accostamenti delle tue opere a Donghi, Janni e Casorati?
Non conoscevo il pittore Guglielmo Janni, nel quale ho riscontrato un certo gusto fiammingo, misterioso, per certi versi “oscuro” e interiorizzato. Il realismo magico di Donghi si contraddistingue per una limpidezza e “fissità” che mi ricorda le composizioni fiamminghe. Le associazioni con le opere di questi artisti italiani, nonché con Capogrossi e Cambellotti, si sono rivelate in una dimensione sincronica perché gli oggetti attinti da questi pittori per le loro rappresentazioni (l’ombrello, i rami, il tamburo, la marionetta) erano già presenti nelle mie opere. Si può dire che i curatori abbiano valorizzato, enfatizzato e messo in evidenza un dialogo che era già in atto.

Performance, scultura, teatro, installazione: dove vorresti portare questi linguaggi, dove pensi di non essere ancora arrivato?
Quale “consilience artist”, credo nella convergenza dei rami della conoscenza e dei linguaggi come unico modo per porre domande sul mondo. Il termine “consilience” è stato introdotto dal biologo, filosofo ed entomologo Edward O. Wilson. Riguarda la combinazione, convergenza, di fatti e idee tra discipline, in modo da poter trovare collegamenti e dare loro nuove interpretazioni. Lo faccio da quarant’anni, la mia scrittura teatrale influenza le mie arti visive, le mie sculture e le installazioni mi influenzano per la mia messa in scena teatrale, i movimenti e la strategia degli insetti ispirano il mio lavoro coreografico. Per tutta la vita ho abbracciato sistematicamente l’idea di ricerca ed esperimento.

Jan Fabre. The Rhythm of the Brain. Exhibition view at Palazzo Merulana, Roma 2019

Jan Fabre. The Rhythm of the Brain. Exhibition view at Palazzo Merulana, Roma 2019

Credo che la meraviglia, la capacità di stupire e di innescare reazioni emozionali ed empatiche, proprio come i neuroni specchio studiati da Rizzolati, siano delle caratteristiche della tua arte. Eppure lo studioso spiegava che l’arte contemporanea, soprattutto concettuale, necessita di un supporto affinché la nostra mente ne riconosca la bellezza, mancando spesso simmetria ed equilibrio. Come pensi una persona digiuna alla contemporaneità dell’arte possa porsi e reagire di fronte alle tue opere?
Penso che la mia arte prenda il via da valori estetici e poi sia condotta a valori etici. La bellezza è una specie di gancio nei miei lavori. Gli esperimenti del professor Rizzolatti sul funzionamento del cervello quando ci troviamo di fronte all’arte classica e contemporanea mi hanno sollecitato interessanti idee e osservazioni. Ho trovato alcuni esperimenti, condotti sul cervello mentre osserva il lavoro di Fontana, illuminanti. Si attivano ​​i neuroni del movimento, quelli che compiono il gesto di “ferire”, le ferite, le stigmate. Stimolare il pubblico all’ascolto, a pensare in modo diverso, cercando di fare quel salto nell’ignoto per trovare nuove interpretazioni, è ciò che cerco di fare come artista.

Quale legame senti con Roma? Cosa pensi del suo panorama artistico attuale?
Vengo a Roma ormai da tanti anni, ho molti amici e ho passato dei momenti meravigliosi. La mostra a Palazzo Merulana è stata realizzata in collaborazione con Romaeuropa, un festival fondato dalla bellissima Monique Veaute e dall’affascinante Fabrizio Grifasi. Hanno presentato le mie opere teatrali sin dal 1987. Per quanto riguarda le arti visive, lavoro da molti anni con il grande Mauro Nicoletti della Galleria Magazzino, un gallerista che non pensa solo al denaro, ma in primo luogo sceglie la forza della bellezza. Achille Bonito Oliva ha supportato il mio lavoro sin dall’inizio e con Melania Rossi ho creato bellissimi progetti in Italia insieme alla curatrice Joanna De Vos.

E Roma?
Roma è una città incredibile, straripante, ricca di storia. A ogni angolo racconta di migliaia di vite e fatti storici. Adoro passeggiare per le strade di questa città, mi piace la sua “grande impronta di arte e umanità” e la sua vita notturna, ho un bar notturno preferito, il “Paris Bar”. La Città Eterna è grandiosa e monumentale, la sua realtà barocca mi ricorda le mie origini, sa darti il ​​benvenuto come una donna bella e seducente quando ti fa perdere tra i suoi sentieri nascosti e ti sorprende con una sensualità voluttuosa e inaspettata.

Giorgia Basili

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Giorgia Basili

Giorgia Basili

Giorgia Basili (Roma, 1992) è laureata in Scienze dei Beni Culturali con una tesi sulla Satira della Pittura di Salvator Rosa, che si snoda su un triplice interesse: letterario, artistico e iconologico. Si è spe-cializzata in Storia dell'Arte alla Sapienza…

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