Meditations on the horizon. Parola a Igor Eskinja

Lorenzo Bruni intervista Igor Eskinja, artista di origine croata, classe 1975, protagonista della mostra personale allestita presso la Galleria Federico Luger di Milano.

Meditations on the horizon è il titolo della tua mostra alla Galleria Federico Luger di Milano. È la tua personale risposta all’attuale mondo globalizzato, smaterializzato e digitale, ma anche uno statement che investe tutta la tua ricerca. Infatti, il titolo permette di porci una domanda, complessa e pragmatica, riguardo alla tipologia e alla natura dell’orizzonte di cui stiamo parlando: si tratta d’informazione? Di archivi? Della presenza fisica? Dell’immaginazione o del desiderio? E soprattutto se riguarda un’esperienza individuale o anche collettiva. La meditazione evocata ha forse a che far con tutte queste prospettive e questioni. Però, prima di affrontare tutto ciò, vorrei iniziare facendoti una domanda riguardante le opere che hai realizzato nell’ultimo periodo tra il 2018 e il 2019 le quali, dialogando, vanno a comporre la mostra in questione.
La mostra è costituita da due differenti cicli fotografici e da una grande scultura che emana ed è fatta di luce. Inoltre l’idea era quella di collocare le opere in uno spazio dalle pareti dipinte in modo da dividerlo in due parti. Una parte è caratterizzata da un colore molto scuro che poi, sfumandosi, diventa sempre più chiaro. Questo intervento pittorico, che visualizza un nuovo paesaggio e la convivenza tra il giorno e la notte, trasforma il white cube in un orizzonte percorribile attivato dalla e con la presenza del pubblico.

Parlami della scultura…
La scultura è ottenuta attraverso l’assemblaggio di elementi particolari che sono la traduzione in 3D delle “nuvolette” tipiche dei fumetti. In questo caso, però, non contengono nessun messaggio o immagine. Esse visualizzano l’assenza di commenti, ma, emanando luce, illuminano ciò che hanno attorno inglobando tutto nel discorso. Queste “nuvolette”, poste una sopra all’altra, vanno a formare un totem. L’effetto di questo lavoro è di farci riflettere su due aspetti differenti del nostro vivere. Il primo riguarda la comunicazione in generale. Io uso la forma della comunicazione senza affermare o imporre niente, anche se la evoco e la presento in maniera oggettiva. Il secondo aspetto è quello dell’illuminazione, che rimanda alla corrente elettrica, che è sempre presente, 24 ore su 24, nelle nostre vite per alimentare i nostri dispositivi digitali e che per questo appartiene a una moltitudine di orizzonti e non solo a uno. L’elettricità non è influenzata dalle nostre posizioni sul globo, dalle stagioni…  da niente di tutto questo. La presenza costante e invisibile dell’energia elettrica e la forma di comunicazione vuota sono due elementi molto importanti che compongono questo mio nuovo progetto. Il terzo elemento che permette all’opera di manifestarsi è costituito dalla presenza di noi spettatori. Siamo noi visitatori che, avvicinandoci a queste “nuvolette” e camminando attorno a esse, le attiviamo e le facciamo diventare parte di un paesaggio altro. Questi tre livelli si intrecciano e rendono viva la scultura, l’installazione, ma anche tutta la mostra. È un modo di aprire un dibattito e un dialogo non su come sia possibile comunicare, bensì sul perché.

Igor Eskinja. Installation view at Manifesta 7. Courtesy FL Gallery & Private Collection

Igor Eskinja. Installation view at Manifesta 7. Courtesy FL Gallery & Private Collection

Nel tuo lavoro è sempre centrale l’enigma su come avviene il passaggio tra il vedere e l’esperire le cose. Tale lettura non si limita soltanto al tuo lavoro fotografico, in cui utilizzi il mezzo dell’anamorfosi per realizzare immagini compiute. In quel caso utilizzi un punto di vista specifico con cui osservare dei segni introdotti da te nello spazio, in modo che si trasformino in un’immagine specifica, ricordandoci però che se il tutto fosse visto da altre angolazioni, il risultato sarebbe differente. In realtà queste immagini sono il sintomo, non certo l’effetto, di un tuo processo più ampio di indagine sui processi di interpretazione del mondo. La riflessione sull’effimero delle forme e sul cercare il senso di esse è un approccio che emerge da sempre dalle tue installazioni, come anche in questa nuova scultura. La scultura di luce, ci pone immediatamente di fronte a un differente modo di rapportarsi con essa: questo perché fa convivere nella stessa forma/immagine due “contesti” differenti. Da una parte l’assemblaggio rimanda a una situazione temporanea ed effimera di oggetti della comunicazione in attesa di diventare altro. In questo caso, tu presenti degli strumenti in attesa e in potenza di diventare qualcosa. Dall’altra parte abbiamo anche un rimando alla dimensione della scultura e in particolare, con la figura del totem, alla dimensione del divino e del religioso. In entrambi i casi si tratta di una presenza che rimanda al rito dell’incontro, anche se nel primo caso, dal punto di vista artistico, adotta il medium dell’installazione, mentre nel secondo caso viene adottato il medium della scultura. Questo strabismo ci costringe a riflettere non solo su come osserviamo il tutto, ma anche su cosa rende un oggetto un’opera d’arte, creando così una dimensione di disagio.
Quello che mi interessa del totem è che in certe società rappresenta la divinità, però in generale rappresenta un punto di incontro per la collettività. È dove la comunità si raduna. È questo l’aspetto che voglio evocare. Il disagio dello spettatore di cui parli tu, se emerge, è legato al porre delle questioni attorno a cosa può essere considerata un’opera d’arte oggi, ma soprattutto su chi potrebbe radunarsi in un luogo d’incontro collettivo al tempo dei social media e delle piazze virtuali. Non mi riferisco solo alla comunità effimera dello spettatore d’arte o alle molte comunità temporanee del web, ma è qualcosa di più profondo. Quindi ti posso rispondere che ci sono tutti e due gli aspetti di cui parli. È un luogo d’incontro, ma anche di definizione degli strumenti da usare successivamente. Strumenti concettuali di interpretazione del nostro mondo. Io punto a contrapporre la presenza del “soggetto comunità” al mondo globale e immateriale dell’informazione.

Interessante. È proprio l’aspetto dello sguardo del singolo che alimenta quello della comunità e viceversa che risulta centrale nella tua ricerca e nel tuo approccio artistico. Tornando alla mostra, oltre a questo lavoro scultoreo/installativo, quali sono gli altri elementi che la compongono?
Sono presenti anche due cicli fotografici. Fotografie che utilizzano la tecnica dell’anamorfosi, che citavi prima e di cui mi servo da molto tempo. Il soggetto di un ciclo è legato al tema delle “nuvolette”. Le immagini sono costruite per mezzo di una linea nera disegnata e disposta all’interno del mio studio. Osservando meglio l’immagine possiamo comprendere che non si tratta di un disegno, bensì di un cavo elettrico reale. Da questo punto di vista deve essere letta l’immagine in quanto documentazione di una scultura, di un’installazione o di una performance senza esserlo fino in fondo, visto che è una presenza in sé. Una delle immagini è quella che è stata utilizzata per l’invito della mostra. L’altro ciclo, invece, è composto da immagini astratte o che indagano il tema dell’astratto. Sono scatti fotografici di frammenti di linee realizzate con adesivi colorati disposti all’interno del mio studio. Successivamente, stampo l’immagine e piego la carta in modo che queste tre linee diventino una cosa unica. Sembrano disegni a pennarello. Io trasformo un’immagine in un oggetto scultoreo. Questa cosa è importante: qui c’è tutto il metodo che ho usato fino ad adesso di costruzione dello spazio, dell’utilizzo del mezzo fotografico, però c’è un nuovo ritorno all’oggetto. La fotografia si trasforma in un momento in cui si compongono immagini su più livelli. Un altro aspetto che non deve essere sottovalutato sta nel fatto che io realizzo tutte queste immagini all’interno del mio studio, mettendo in dialogo la parete con il pavimento. Quando la fotografia si piega, questo pavimento e questa parete, che erano diventati un orizzonte piatto nell’immagine, diventano una cosa frammentata e parte di un’esperienza e di un processo astratto work in progress. È questa l’idea dei nuovo lavori, e del mio nuovo campo di interesse.

È molto importante riflettere sul processo che compi all’interno del tuo studio. Scegliere questa modalità di lavoro molto probabilmente è stata la tua risposta al mondo smaterializzato della comunicazione digitale, in cui l’immagine ha sostituito l’informazione e l’elaborazione di essa. Non rispondi però all’effimero con l’effimero, ma problematizzando il cambiamento del nostro modo di percepire le cose. Evidenzi con queste opere il nuovo concetto di possedere l’immagine che ha sostituito l’idea di utilizzare l’oggetto del reale. Però l’interesse di questa pratica non si limita solo al fatto che fai riflettere su questo cambiamento. Lo utilizzi per visualizzare anche un altro aspetto che riguarda squisitamente il campo dell’atto creativo e del gesto artistico. Visualizzi il processo e di conseguenza poni la questioni di quale sia o possa essere oggi il ruolo dell’artista in un mondo post-internet. Infatti, queste opere ci parlano del tempo dell’artista nel suo studio e del rapporto tra produzione ed esposizione dell’opera. Guardando alla storia dell’arte precedente, penso alle performance realizzate in studio, solo per la macchina da presa, da parte di Bruce Nauman, ma anche altri. Oggi il mondo è cambiato e proprio il concetto di spazio pubblico e di quello privato, cosi come il ruolo del produttore come quello del fruitore, non sono più divisi in maniera netta come avveniva negli Anni Sessanta all’inizio della diffusione dei mass media. Rispetto a questo, la domanda che vorrei farti è: quale è la tua posizione rispetto al dialogo tra artista e atto creativo, tra spazio di produzione e di esposizione? La seconda domanda è: come ti confronti con la tradizione degli Anni Sessanta del lavoro performativo in dialogo con il proprio spazio di lavoro?
La mia risposta è un po’ complessa. Io lo studio lo uso prima di tutto come un luogo dove realizzare degli esperimenti. È un laboratorio. Da una parte lo studio per me è il confronto con l’architettura e con lo spazio fisico. Dall’altra è il luogo in cui mi confronto con l’idea di dialogo e del creare un nuovo senso della percezione dello spazio. È solo nella mostra che le opere prendono forma definitivamente. La mostra, l’evento di far vedere il lavoro, per me e per tanti altri artisti della mia generazione, è molto importante. Senza la mostra come un punto nel tempo, tantissime opere non esisterebbero. Ovviamente non quando parliamo delle fotografie. Quelle esistono di per sé, ma solo nel dialogo con le altre opere in un contesto specifico, entrano a far parte di una narrazione risolta. Per questo lo studio lo vedo come un punto di partenza. Invece, per quello che riguarda differenze e vicinanze con le opere degli Anni Sessanta, hai ragione a parlare della presenza performativa nelle mie opere. Però è una presenza sottile, e che voglio sia sottile. Chi le ha fatte quelle forme? Io, o meglio chi vive in quello spazio, ma non è descritto. Nel mio caso gli oggetti e le forme che ritroviamo negli scatti fotografici sono transitori, ed è come se prendessero forma per un periodo breve. Spariscono dopo essersi trasformati in immagine.

Igor Eskinja, Meditions on the horizon, 2018. Courtesy FL Gallery & the artist

Igor Eskinja, Meditions on the horizon, 2018. Courtesy FL Gallery & the artist

Grazie per affrontare il modo in cui ti confronti con lo spazio dello studio e con l’atto creativo in generale. Possiamo paragonare il tutto a una forma di meditazione. Però di tipo partecipativo e non esclusivamente personale. Questo ci porta direttamente a discutere sulla scelta del titolo della mostra, che è Meditations on the horizon.
Sì. Il titolo rimanda a un tipo di meditazione come a una riflessione astratta sulle cose, ma è anche legato al tema dell’esperienza e della condivisione. È un qualcosa che riguarda delle costanti che sono presenti nel mio lavoro da sempre. L’idea dell’orizzonte mi ha sempre affascinato perché dal punto di vista visivo è un limite. È quel punto dove arriva la nostra vista, la nostra conoscenza. Per la nostra cultura l’orizzonte è stato molto importante, perché questo limite ha stimolato la necessità di andarvi oltre, di superarlo, di iniziare dei viaggi e di scoprire nuovi luoghi. Da un lato e dall’altro lato definiva un territorio che era sotto i nostri occhi, sotto le nostre esperienze. L’idea del limite non avveniva solo dal punto di vista dello spazio, ma anche del tempo. Il cambiamento e il passaggio tra giorno e notte, tra le stagioni… Un concetto astratto, ma anche verificabile. Questa idea della conoscenza dello spazio nella società contemporanea è drasticamente cambiata oggi nel mondo di internet. Con la tecnologia digitale non c’è orizzonte, non c’è limite, c’è invece un’onnipresenza totale di tutto e tutti. Oggi, anche se non vediamo più le cose, sappiamo che esistono altrove. Tale consapevolezza esisteva anche prima nella storia, ma forse non in questa abbondanza e con questa oggettività. Io ho voluto confrontarmi con questo cambiamento.

Esiste in questa analisi un approccio critico alla nostra “modernità liquida”?
Sì. Però diciamo che non c’è una critica a “tesi”. Quando si parla di critica, questa deve essere legata a qualcuno, avere una relazione con un certo tipo di problema, un gruppo, una comunità. Le mie opere sono critiche, ma in un modo molto largo. I lavori che riflettono su aspetti ontologici hanno già un elemento critico dentro di sé.

Lorenzo Bruni

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Lorenzo Bruni

Lorenzo Bruni

Lorenzo Bruni - nato a Firenze - è critico e curatore indipendente e coordina dal 2000 lo spazio non profit BASE / Progetti per l’arte di Firenze. Nel 2016 è stato consulente per la nuova apertura del Museo Pecci di…

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