Il rivelarsi dell’arte contemporanea: Gianni Caravaggio e Francesco Carone a Firenze

I due progetti sulla scultura contemporanea ospiti del Museo Novecento di Firenze innescano una riflessione sul ruolo del museo nei confronti dell’arte e del pubblico.

Gaspare Luigi Marcone cura il ciclo Duel, dove l’invitato è l’artista Gianni Caravaggio (Rocca San Giovanni, 1968) mentre Campo Aperto, con Francesco Carone (Siena 1975), è curato da Rubina Romanelli. Proporre due mostre di questa portata per un museo come quello del Novecento a Firenze si pone come una scelta forte, che controbatte ai populismi vincenti per mettersi, invece, in una posizione di resistenza.
E questo perché lavori come quelli presentati da Gianni Caravaggio e Francesco Carone non sono lavori “facili”. Sono anzi (come scriverebbe Gianni Caravaggio) degli “atti demiurgici, delle rivelazioni. Esplicativo in questo senso diventa il primo lavoro proposto da Caravaggio, Il mistero nascosto da una nuvola (2013-2018): la pesantezza dell’ammasso di granito ‒spolverato dalla delicatezza effimera dello zucchero a velo – rimane isolata nello spazio vuoto, il mare profondo del relitto marino. Questo lavoro sintetizza perfettamente l’immaginario iconografico e la ricerca concettuale di Caravaggio: è quell’atto demiurgico sopra citato, che ha un’azione doppia e reciproca dell’artista e del fruitore.
Componente, questa, presente anche nei lavori pensati per Duel – format di dialogo, ideato dal direttore artistico del museo Sergio Risaliti, tra un artista contemporaneo e un’opera proveniente dalla collezione civica o da una delle mostre temporanee. In relazione con La base magica (1961) di Piero Manzoni, che Caravaggio preleva e riattualizza, è l’opera Giocami e giocami di nuovo (1996). Qui lo spettatore può giocare una sorta di partita a dadi, che altro non sono che piccole sculture in bronzo, forme plasmate direttamente dalla mano dell’artista-demiurgo che rimandano ai cinque continenti. Di nuovo si attua quella processualità creativa da parte dell’artista e (in questo caso specifico) del giocatore: si rivelano così infinite possibilità – specchio dell’opera-gioco e contemporaneamente di quella continua, mutevole processualità slegata dalla volontà dell’artista, che anzi dipende dalla casualità delle cose.

Francesco Carone. Installation view at Museo Novecento, Firenze 2018

Francesco Carone. Installation view at Museo Novecento, Firenze 2018

COMPRENSIONE EMPATICA

Se in Caravaggio le opere sono tese a indagare l’origine dello stesso gesto artistico, inteso come atto demiurgico e di come lo spettatore, con la propria immaginazione, crei l’opera d’arte, nell’idea di Carone lo spettatore può arrivare alla comprensione dell’opera solo a livello empatico. In questo modo la tanto ricercata “interpretazione” dell’opera artistica viene ridotta a puro esercizio intellettuale e retorico, di fronte a lavori che presentano infinite possibilità di lettura.
Laddove in Caravaggio l’opera si rivela nel suo compimento, Carone, con Ciclope (2018), affronta la tematica del superamento dei limiti materiali. Ed è così che il Polifemo omerico, nonostante la cecità, può comunque vedere e oltrepassare, grazie allo sguardo interiore, i limiti dello spazio (il muro) e del tempo (si guarda a Tempesta, un lavoro cronologicamente antecedente). Il palo d’ottone diventa non cono ma raggio visivo: la visione diventa aperta, i piani non hanno più limiti di vicinanza o lontananza ma sono tutti ugualmente accessibili allo sguardo. Ciò che inizialmente sembra solo un’allucinazione ipnagogica, altro non è che l’immagine lontana della Tempesta: se il quadro, contenitore di un’immagine in evoluzione potenzialmente infinita – messo in relazione con Ciclope per una questione principalmente narrativa – simboleggia il disordine, le alghe di Afrodite Anadiomene, La femme à la vague e La nascita di Venere ‒ che rispondono a una forma grafica e secca – simboleggiano l’esatto opposto. Nello stesso contesto narrativo marino, la bellezza che vede e che cerca Carone è contemporaneamente caos e chiarezza: la sua attenzione parte da punti diametralmente opposti per giungere infine a una stessa conclusione.

Gianni Caravaggio. Iniziare un tempo II. Museo Novecento, Firenze 2018

Gianni Caravaggio. Iniziare un tempo II. Museo Novecento, Firenze 2018

UNA SCELTA IN CONTROTENDENZA

L’arte di Caravaggio e di Carone non può essere definita criptica né tantomeno autoreferenziale: la loro è una ricerca che tratta temi universali da sempre affrontati nell’arte. È, semmai, introspettiva nelle sue conclusioni, che vedono come punto d’arrivo il pensiero dell’artista. L’opera, in entrambi i casi, diventa il mezzo attraverso cui l’artista giunge alla conoscenza. In aggiunta, i lavori dei due artisti sono autosufficienti, in quanto non dipendono dal luogo o dal contesto espositivo, e al tempo stesso auto-rilevatori.
Da qui la questione aperta da Niccolò Lucarelli nell’articolo Molti concetti, troppe distanze. Gianni Caravaggio e Francesco Carone a Firenze: ha senso oggi che un museo proponga un’arte che, per quanto originale, resta purtroppo lontana dal toccare l’anima del pubblico?
Nella lettura di Lucarelli, mostre come quelle di Caravaggio peccherebbero di cripticità e freddezza, allontanando così il vasto pubblico ‒ la maggioranza dei visitatori di un qualsiasi museo – mentre Tempesta di Carone sarebbe la sintesi di una questione privata fra artisti: esempio perfetto per riassumere la tendenza respingente di opere auto-referenziali da cui il pubblico sarebbe automaticamente allontanato.
Pierre Bourdieu parlerebbe di habitus, Dwight McDonald di midcult e masscult: quello che ancora oggi è applicabile e vero è come per comprendere l’opera d’arte sia condizione necessaria avere cognizione del contesto sociale. Detto ciò, all’opposto di una proposta di massa e per la massa (standardizzata e di facile consumo) se ne pone una che, con queste due mostre, si schiera su posizioni smaccatamente elitarie. Una scelta contro moda, coraggiosa proprio in quanto anti-popolare: non una mostra ammiccante, prostrata allo Zeitgeist e alla fruizione pop; non una mostra che stacca biglietti d’entrata; bensì un tentativo di autonomia dal mercato e dalla fruizione di massa, una sfida che va premiata.
Nonostante possa venir meno (apparentemente) lo scopo divulgativo che ogni museo può avere nella propria mission e nonostante si rischi una reazione respingente da parte del pubblico, il luogo museo può attrarre a sé il pubblico non specializzato, se non addirittura crearne uno nuovo, senza necessariamente arrivare a un compromesso sulla qualità della proposta, scadendo in soluzioni “facili” perché inclusive.

PROPOSTE VARIEGATE

Quale, dunque, la soluzione?
Diventando spazio ospitante di situazioni culturali contemporanee quali concerti, conferenze, attività didattiche e dibattiti, lo spazio museale può fornire uno spettro di proposte più ampio e variegato. Attraverso questa doppia natura il luogo museo potrebbe così diversificare il suo pubblico: senza abbandonare la complessità intrinseca all’opera artistica e promuovendosi attraverso iniziative collaterali ma ben implementate, assolverebbe in pieno alla funzione di sensibilizzazione all’arte che gli è propria.  La parola d’ordine, dunque, non dovrebbe essere divulgazione, bensì educazione. Perché, se da un lato è innegabile che oggi sia proprio il pubblico non specializzato ad alimentare e decretare la sopravvivenza di qualsiasi spazio espositivo, dall’altro è compito etico e morale di un direttore museale lavorare per amore dell’arte, difendere la sua natura, trasmetterla (così com’è) agli altri e seguirne le evoluzioni.

‒ Stefania Margiacchi

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