Dove c’era l’altare, Erjon Nazeraj (Fier, Albania, 1982) ha appoggiato un disegno del suo corpo collegato alla placenta, simbolo della prima “abitazione” umana. Ad abbracciare l’opera, tre fotografie fissano i momenti di una performance realizzata dall’artista nel 2016 mettendo al centro ancora il proprio corpo, avvolto in una coperta isotermica: materiale privilegiato per chi intende declinare l’attualissima tematica dell’immigrazione attraverso immagini esplicite e cariche di forza estetica grazie all’oro prezioso e all’assoluta duttilità.
Il discorso sull’abitazione, abbandonata dai migranti nei Paesi d’origine e disperatamente cercata altrove, si svela dal contesto ‒ una cava di marmo –, si sviluppa in riflessioni sul paesaggio, sulla famiglia e si conclude con Silenzio d’oro, figurazione della “sarabanda mediatica di un fastidioso quotidiano” e della necessità del “silenzio come condizione da rompere, destrutturare per ammettere solo pochi indizi, quelli essenziali a qualificare la mostra, ossia una Storia di migrazione ciclica, incontrollata e incontrollabile che lascia segni nel paesaggio, segni d’oro sul marmo, abitazioni minime, placente” (Andrea Tinterri).
‒ Marta Santacatterina