Tra pittura, materia e azione. Cesare Tacchi a Roma

La mostra allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma ripercorre la storia creativa di Cesare Tacchi. Dalle prime tele fino alle “azioni”, includendo una serie di opere poco note o addirittura inedite.

Lucido, schivo e consapevole: Cesare Tacchi (Roma, 1940-2014) è stato un perfetto testimone di un clima artistico che ha sempre vissuto da protagonista, e lo dimostra l’esemplare mostra Cesare Tacchi. Una retrospettiva, curata con preciso rigore filologico da Daniela Lancioni e Ilaria Bernardi. Un omaggio che Roma doveva a uno dei suoi artisti più intensi e rappresentativi degli Anni Sessanta, reso celebre dalle sue tappezzerie ma in realtà artista ben più aggiornato e complesso. E lo si vede già a partire dalla prima sala, dove le curatrici hanno riunito una serie di opere giovanili a partire da Figura (1959), una tela astratta densa di riferimenti ad Alberto Burri ma soprattutto a Franz Kline, che Tacchi aveva potuto vedere, come suggerisce Daniela Lancioni, nella sua mostra personale alla galleria La Tartaruga nel 1957. Un’opera ancora informale ma aperta ad altre suggestioni, che puntuali arriveranno all’alba degli Anni Sessanta, con opere come Giallo Cromo (1961) e Senza Titolo (1961), dove si possono scorgere alcune affinità con le opere dell’artista americana Louise Nevelson, che espone per la prima volta in Europa nel 1960, a Parigi.

Cesare Tacchi, Struttura bianca su nero, 1962. Collezione privata, Roma. Photo Salvatore Piermarini - Archivio Cesare Tacchi

Cesare Tacchi, Struttura bianca su nero, 1962. Collezione privata, Roma. Photo Salvatore Piermarini – Archivio Cesare Tacchi

LAVORARE SUL DETTAGLIO

Già dall’anno successivo Tacchi mette a fuoco la sua ricerca che lo accompagna per più di un decennio: lavorare sul dettaglio, visto in close up, per raccontare una società dove i mass media sono sempre più presenti fino a dominare la cultura visiva. Tacchi guarda l’Italia con occhio ironico e leggero, ma sempre interessato ai nuovi stilemi dell’immagine, non per celebrarne le regole ma prendendo atto della sua forza intrinseca. Così le macchine da corsa, le utilitarie e perfino i tram raccontano l’interesse verso una pittura urbana, giocata sul rapporto tra dentro e fuori, come in Circolare Rossa (1963), che trasferisce in chiave iconica le suggestioni dei capolavori futuristi di Giacomo Balla. O, ancora di più, in Piazza Navona dall’automobile (1964), che sembra riprendere le suggestioni di certe sovrapposizioni di Francis Picabia. Tacchi studia, conosce la storia dell’arte e legge i testi di Foucault e McLuhan, ed è al corrente di quanto accade nel mondo dell’avanguardia. E la mostra rende ragione della complessità del suo pensiero, espresso in maniera esemplare dai quadri a rilievo, che occupano due sale. Tacchi ci lavora per soli tre anni e ne realizza circa settanta: “Sono per l’artista un importante approdo e costituiscono la serie più nota dei suoi lavori”, spiega Daniela Lancioni, sottolineando il fil rouge che attraversa questa fase della ricerca di Tacchi, annunciata dal dialogo tra Poltrona Rossa e Poltrona Gialla, entrambe del 1964. E qui la mostra prende il volo, con una serie di opere che documentano le icone di una società del benessere, che aveva trovato il suo manifesto in un’opera come Just What Is It That Makes Today’s Homes So Different, So Appealing? (1956) di Richard Hamilton. Un immaginario diverso per raccontare un mondo nuovo, attraverso citazioni tratte dalla storia dell’arte, dalla musica pop, dalla pubblicità o semplicemente dalla mollezza del quotidiano.

Cesare Tacchi, La primavera allegra, 1965. Collezione Maramotti, Reggio Emilia

Cesare Tacchi, La primavera allegra, 1965. Collezione Maramotti, Reggio Emilia

ESSENZA E AZIONE

Già dal 1966 però la sua arte si fa più essenziale, avvicinandosi a suggestioni concettuali e poveriste, prima con i mobili privi di funzione (Poltrona inutile, 1967) e poi con una serie di progetti per azioni e installazioni, arricchite da salaci commenti dell’amico poeta Nanni Cagnone, che seguono la Cancellazione d’artista realizzata da Tacchi nel maggio 1968, in quel vulcanico ed effimero contesto del Teatro delle Mostre, promosso da Plinio de Martis alla galleria La Tartaruga. In una delle sale più intense del Palazzo delle Esposizioni viene presentata la lastra originale che l’artista in quell’occasione dipinge fino a scomparire: uno statement simbolico preciso che apre la strada alla fase “concettuale”, analizzata da Ilaria Bernardi in un nutrito saggio in catalogo. Un periodo che Tacchi definisce come uno zigzagare durato 45 anni (dal 1969 al 2014), che costituisce la vera sorpresa della rassegna, attraverso opere poco note o addirittura inedite, in grado di rivelare quanto l’artista fosse in piena e totale sintonia con lo zeitgeist del tempo. Dai libri extraverbali del 1972, del tutto privi di parole sostituite da pagine colorate, all’azione Io sono-Tu sei. Due basi per un colloquio (1972), composta da due basi per sculture che accolgono un dialogo muto tra due individui, Tacchi si interroga sul linguaggio dell’arte attraverso un’attitudine “afasica” ma densa di significati, che culmina nell’opera Senza titolo (La mano che scrive) (1972), con evidenti riferimenti a esperienze poveriste condotte da Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti e Giulio Paolini negli stessi anni. Nel medesimo anno, attraverso l’azione Painting, presso lo studio di Elisabetta Catalano, l’artista si riappropria della propria immagine cancellando la pittura da una lastra, in modo da far riapparire il proprio corpo. Riscopre la pittura non più come rappresentazione di un mondo bensì in quanto veicolo di sperimentazione, codice di comunicazione tra sé stesso e gli altri. Opere come Quadro Elastico (1975) o dipinti come Sécrétaire (1980) fino al trittico Lo spirito dell’arte n.1, n.2, n.3 (1990) indicano un’attitudine legata alla didattica da una parte (l’artista ha insegnato dal 1971 al 2007) e alla psicanalisi dall’altra, che costituisce un punto di riferimento per Tacchi a partire dal 1981. “L’itinerario da percorrere è soprattutto quello di essere fedeli a se stessi, perché la via è solitaria al fine e porta lì dove sei nato nella materia”, ha scritto l’artista. Una mostra come questa è la maniera corretta per entrare nel cuore del pensiero dell’artista e comprenderne tutta la complessità.

Ludovico Pratesi

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Ludovico Pratesi

Ludovico Pratesi

Curatore e critico d'arte. Dal 2001 al 2017 è stato Direttore artistico del Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro Direttore della Fondazione Guastalla per l'arte contemporanea. Direttore artistico dell’associazione Giovani Collezionisti. Professore di Didattica dell’arte all’Università IULM di Milano Direttore…

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