Centri per l’arte contemporanea e ruoli direttivi. L’editoriale di Marco Trevisan

Una riflessione (da parte di uno dei candidati alla recente nomina del Pecci di Prato) sul ruolo che dovrebbero giocare i direttori dei centri per l’arte contemporanea e un invito a mettere in campo approcci innovativi e davvero aperti all’attualità.

La recente selezione e conseguente nomina di un nuovo direttore del Centro Pecci di Prato offrono l’opportunità di riflettere su quale debba essere oggi il ruolo di una realtà come il Pecci – e inevitabilmente sui criteri che dovrebbero guidare i momenti di scelta riguardanti la gestione.
Si legge nella mission: “Il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci è il primo centro di tutte le arti contemporanee realizzato in Italia. La missione del Centro Pecci è quella di indagare tutte le discipline della cultura contemporanea, non solo legate alle arti visive ma toccando anche cinema, musica, performing arts, architettura, design, moda e letteratura e avvicinando l’arte alla vita e alle grandi tematiche sociali. Il Centro Pecci è una istituzione che intende avvicinare l’arte alla vita, promuovendo partecipazione e comprensione delle dinamiche socio-culturali”.
Grande apertura, quindi, al contemporaneo in tutte le sue forme, alla società, al dialogo su più piani. Un approccio condivisibile, per un centro che deve trovare una propria identità e diversificazione, a pochi chilometri da Firenze. Si cerca, quindi, di entrare nel concept dei più attuali “contemporay art center”, che spesso non sono legati a una collezione permanente, che hanno uno spirito multidisciplinare che abbraccia più ambiti della creatività, e che hanno una vocazione legata alla sperimentazione e alla ricerca. Pensando a livello internazionale, si potrebbero citare ad esempio il PS1, il New Museum, Bozaar, il nuovo MAAT a Lisbona, il Baltic Center, o alcuni recenti progetti italiani di matrice privata come il MAST e le Officine OGR.
Ma cosa vuol dire oggi in Italia essere “contemporanei”, in generale e con la proposta programmatica e gestionale di uno spazio/istituzione che vuole essere all’avanguardia? Ciò ha a che fare – o dovrebbe ‒ con la capacità di innovazione vera che il nostro Paese fa fatica anche a concepire, prima ancora che attuare. Quasi tutte le realtà citate poc’anzi usano vari tipi di linguaggio, da quello del mondo della comunicazione a quelli della scienza, della tecnologia, dell’impresa, del marketing, del digitale, creando vere sinergie e relazioni.
Il New Museum dal 2003 ha tra gli affiliati Rizhome, un’organizzazione privata che si dedica all’arte e alla cultura di origine digitale e che ha aperto molte porte alla conoscenza in questo ambito. Il MAAT fa parte di un progetto architettonico e di urban planning ambizioso, che porterà anche all’apertura di un “hub criativo” adiacente, un grande incubatore d’impresa che dialogherà con il museo. Qualcosa del genere cercheranno di fare anche le OGR a Torino, con la regia della Fondazione CRT.

MAAT by day. Photo Marco Enrico Giacomelli

MAAT by day. Photo Marco Enrico Giacomelli

IMPRESA, TECNOLOGIA, SPERIMENTAZIONE

Tecnologia e impresa, in primis, sono realtà con le quali un centro legato al contemporaneo e alla sperimentazione si deve confrontare, ma con capacità innovativa vera e con dialoghi senza preconcetti. Una città come Linz – 200mila abitanti nel nord dell’Austria –, dopo un periodo di depressione post-industriale, è riuscita a mettere in piedi un progetto di riconversione di eccellenza, partendo dal basso. Da fine Anni Settanta esiste Ars Electronica, grande festival di arte e tecnologia, che negli anni si è sviluppato anche come Premio, come Museo permanente, e poi come Laboratorio. Queste quattro anime costituiscono un organismo integrato che continua a reinventarsi. Il Laboratorio “Futurelab” è quello che rende più l’idea del concept avanzato: ogni anno vengono riuniti in gruppi di lavoro artisti, ricercatori, ingegneri e tecnici di aziende come Mercedes, SAP, Intel, Bmw ecc., lavorando su quesiti sul futuro di comune interesse e ottenendo fondi da parte dell’organizzazione. L’arte ‒ specie quella digitale e immersiva – si fa interprete di concetti scientifici e tecnologici complessi, li rielabora, e li trasforma in installazioni intuitive e più comprensive. L’arte diventa mediatore culturale per rendere concetti complessi alla portata di un più grande pubblico, ma anche come elemento di sperimentazione, in un vero dialogo con la società e l’impresa. Ad esempio, il tema della sicurezza nel futuro del volo senza pilota, in collaborazione con Intel, si è tradotto in un’installazione artistica spettacolare con 100 droni volanti con scie colorate a Linz, e 300 ad Art Basel Miami lo scorso dicembre. Il dialogo tra arte, impresa e società è totale e aperto e teso all’innovazione e alla sperimentazione.
Allora, tornando al nostro quesito: cosa hanno intenzione di fare i grandi progetti e centri per l’arte contemporanea in Italia, che proclamano di fare del dialogo con la società e della multidisciplinarietà la loro missione? E addirittura di voler “avvicinare l’arte alla vita”? Trovare qualcuno che selezioni delle opere per progetti espositivi che abbiano delle idee curatoriali originali o importanti? Temo sia necessario, ma non sufficiente. La partita va giocata su vari piani, interagendo con le istituzioni, le imprese, con chi fa innovazione vera, con organizzazioni private, con altre istituzioni, etc. E l’innovazione va pensata e ricercata su più livelli.
Ad esempio, su quella che deve essere l’organizzazione all’interno di un centro sperimentale. Per diventare organizzazioni sociali che hanno un impatto positivo nelle loro comunità, i musei devono ripensare le loro strutture organizzative interne. C’è un dibattito interessante in corso a livello internazionale su questo tema. La maggior parte dei musei si basa su strutture radicate e gerarchie tradizionali, la comunicazione scorre dall’alto verso il basso, il che significa che “l’innovazione ristagna, l’ingaggio soffre e la collaborazione è praticamente inesistente” (Jacob Morgan). Gli sforzi per decentralizzare il processo decisionale e promuovere una più ampia collaborazione portano a musei più innovativi, più reattivi ai cambiamenti e più propensi ad avere uno scopo centrale condiviso tra il personale, i volontari, i visitatori e gli stakeholder della comunità: il suo ecosistema umano. Jasper Visser scrive di musei e di questi aspetti di social business, per “un’organizzazione dove il fattore umano e quindi creativo sia al centro, mettendo in atto strategie, tecnologie e processi per coinvolgere sistematicamente tutti gli individui nel suo ecosistema”. I centri d’arte contemporanea dovrebbero essere palestra di questo, e chi li guida provare a sperimentare soluzioni nuove anche sotto questo aspetto.

La sala convegni delle OGR di Torino, disegnata da Liam Gillick. Photo Irene Fanizza

La sala convegni delle OGR di Torino, disegnata da Liam Gillick. Photo Irene Fanizza

FIGURE DIRETTIVE ECLETTICHE

Così come negli ultimi tempi, anche nel settore dell’impresa tradizionale for profit, si è fatto largo un pensiero che dice che ci sia necessità di un ritorno a una formazione generalista e a tratti umanistica anche per chi si occupa di ingegneria e di amministrazione di grandi aziende (vedi ad esempio i contributi di J.C. De Martin). C’è bisogno di un ritorno alle materie umanistiche per evitare l’eccessiva sperimentazione tecnica, e questo credo sia condivisibile. La capacità al ragionamento, alla flessibilità, alla creatività e al pensiero laterale sono frutto di apprendimento e di formazione ampia. Questo per dire che i suddetti general manager – anche nei musei ‒dovrebbero comunque avere una formazione e una attitudine allenata e non essere dei tecnocrati.
Insomma, un centro polivalente per l’arte contemporanea ambizioso dovrebbe occuparsi di innovazione e sperimentazione, nei contenuti che presenta, nel rapporto con la società e l’impresa, fino ad arrivare alla propria organizzazione interna. E la figura che deve guidare tutto ciò dovrebbe essere eclettica e non è detto debba essere un curatore. Sempre più spesso la soluzione in questi casi è ibrida, con un general manager e un direttore artistico che collaborano in sinergia (vedi, ad esempio, il New Museum, la Serpentine, ma anche l’HangarBicocca).
Queste considerazioni, poi, si calano in un contesto italiano che vede le recenti notizie circa la conferma dei dubbi del Consiglio di Stato sulla legittimità della norma che prevede la possibilità per gli stranieri di ricoprire il ruolo di direttore nei musei italiani. Discutiamo ancora su tematiche dal retrogusto protezionistico in un ambito nel quale la libera circolazione delle idee a livello internazionale ‒ e di chi di quelle idee è portatore – è una condizione di base per la crescita e l’innovazione. Si ha l’impressione che il livello del dibattito stia sempre su un piano diverso da quello nel quale dovrebbe stare, ragionando di futuro.

Il Centro per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato

Il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato

IL CASO PECCI

Per quanto riguarda il Pecci, pensando alla commissione incaricata per la selezione del nuovo direttore, si contano tre profili con formazione da storico dell’arte e/o curatore, incaricati da altrettante istituzioni pubbliche (Regione, Comune e Fondazione per le Arti Contemporanee in Toscana) e chiamati a fare la scelta. Probabilmente qualche rappresentanza con una estrazione diversa avrebbe potuto ampliare l’orizzonte del dibattito, e comunque è difficile pensare a una libertà di espressione totale. I tre mesi impiegati per passare da un gruppo di nove pretendenti ai tre della short list sembrano essere fin troppi. Inoltre, nove candidati che hanno mandato una domanda completa con i requisiti richiesti e un progetto sembrano decisamente troppo pochi per una delle istituzioni che sul contemporaneo dovrebbero avere più charme in ottica futura, anche grazie al nuovo edificio di Maurice Nio. La gabbia politica, le poche certezze e la poca visione sul futuro sembrano handicap importanti, così come una application form che invece era paradossalmente sin troppo particolareggiata ed esigente.
La speranza è che in futuro i centri d’arte contemporanea in Italia comincino veramente a ragionare di innovazione e ricerca in tutte le loro componenti, anche quelle legate all’approccio gestionale, con una certa autonomia e supporto disinteressati. Come ha detto Tino Sehgal ‒ economista di formazione ‒ a Torino in questi giorni: “L’arte fa più politica della politica quando raduna le persone, le coinvolge, le fa interagire. I politici amministrano più che fare i politici e non incidono davvero sulla realtà”.

‒ Marco Trevisan

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati