Cultura. Francia e Italia a confronto

Dal discorso di insediamento tenuto da Macron di fronte al Louvre alle scelte curatoriali di Christine Macel nell’ambito della Biennale di Venezia, l’esempio francese, in quanto a cultura, è un modello cui guardare. Perché l’Italia non ha il coraggio di spiccare il salto?

La scelta di Emmanuel Macron di tenere il suo discorso di insediamento come ottavo presidente della Repubblica francese davanti alla piramide del Louvre, il maggio scorso, è tutt’altro che casuale.
Anche se la stampa si è concentrata sui toni concilianti di Macron nei confronti dei leader degli altri partiti sconfitti e, ovviamente, sul tema scottante della lotta al terrorismo, pochi hanno notato che il vero cuore della sua accesa prolusione era piuttosto quello della competizione culturale. Per dare più forza a questa idea, con un aggancio drammaticamente riuscitissimo, il neopresidente ha fatto addirittura riferimento alla Piramide alle sue spalle, definendola una costruzione “audace”, simbolo della capacità innovativa dell’intera Francia.
Retorica, entusiasmo post-elettorale o pura demagogia, resta il fatto che la Francia si colloca al vertice in Europa per la percentuale di spesa dedicata alla cultura, mentre l’Italia è da molti anni fanalino di coda (fonte Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2016). Così, la scelta di affidare la Biennale di Venezia 2017 alla francese Christine Macel è parsa a molti una buona idea: Macel, curatore capo al Centre Pompidou dal 2000, offriva infatti alte garanzie di una conduzione di qualità della kermesse veneziana.
E, in effetti, così è stato. Benché la direzione di Macel sia stata definita “prevedibile”, priva di guizzi, e persino da “secchiona”, l’impianto della sua mostra appare nel complesso solido e ben distribuito. Anche se il susseguirsi di “stanze tematiche” all’Arsenale e al Padiglione Centrale poteva far pensare a un discorso per frammenti, non si può non notare che ciascun “frammento” appariva in sé sempre riuscito, andando a comporre nell’insieme un collage coerente, vivace e a tratti esuberante.

UN TAGLIO MUSEALE

Semmai, il dato davvero importante da registrare è la tendenza sempre più evidente verso una trasformazione generale di queste grandi kermesse artistiche. Se prima le biennali erano tutte tese a proporre le novità del biennio precedente, ora scavallano con disinvoltura decenni in una stratificazione temporale senza precedenti; se prima il successo di una manifestazione d’arte contemporanea era necessariamente giocato sull’arrembaggio dei “nuovi linguaggi”, oggi si rimbalza tra mezzi espressivi che più diversi non si potrebbe, dal ricamo al monocromo, dalla performance al cinema in pellicola; se prima la faceva da padrone l’insopportabile egocentrismo del curatore-vate, ora prevale nettamente un equilibrio e una competenza di taglio museale – e proprio qui Macel docet.
Tuttavia, se davvero questa è la tendenza – e se questa tendenza coinvolge non soltanto le grosse macchine espositive, ma l’arte contemporanea nel suo complesso – perché non osare tutto, e radicalizzare le cose? Perché non dare un segno culturale deciso, e trasformare davvero la più importante di tutte queste esposizioni temporanee da festival estivo a luogo di riflessione a tutto campo e in tutti i campi? Dopotutto, non può essere un caso nemmeno il fatto che – dopo la Biennale di Massimiliano Gioni, centrata sul Libro Rosso di Jung, e quella di Enwezor, imperniata sul Capitale di Marx – anche il Padiglione Italia di Cecilia Alemani prenda spunto da un libro, cioè Il mondo magico di Ernesto De Martino. Il problema sarebbe però riuscire a passare da una visione dell’arte come dimensione espressiva collaterale a una nuova centralità culturale; da un gioco di citazioni e di rimandi ispirazionali alla creazione di un tessuto complesso e stratificato di approfondimenti intellettuali, mediali, visuali – passare cioè alla creazione di un vero “piano di consistenza” iperculturale dove giochino la loro partita saperi diversi capaci di comunicare fra loro.

Retorica, entusiasmo post-elettorale o pura demagogia, resta il fatto che la Francia si colloca al vertice in Europa per la percentuale di spesa dedicata alla cultura”.

L’Italia sconta in questo campo un ritardo non facilmente colmabile, e a fatica un prossimo leader potrebbe voltarsi e fare riferimento a un’opera architettonica “audace”, che non appartenga necessariamente al passato, capace di simboleggiare la nostra forza culturale. Eppure, non ci sono mai mancati esempi straordinari, sia incarnati da singoli intellettuali, da Eco a Pasolini, a De Martino stesso, sia da artisti, da Bene a Mauri, o anche da istituzioni, come la Rai degli esordi (meravigliosamente reinterpretata nella mostra di Francesco Vezzoli alla Fondazione Prada).
E allora? Ci manca proprio il coraggio di fare questo salto culturale? Oppure, dobbiamo farci insegnare anche questo dai cugini francesi?

Marco Senaldi

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #38

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Marco Senaldi

Marco Senaldi

Marco Senaldi, PhD, filosofo, curatore e teorico d’arte contemporanea, ha insegnato in varie istituzioni accademiche tra cui Università di Milano Bicocca, IULM di Milano, FMAV di Modena. È docente di Teoria e metodo dei Media presso Accademia di Brera, Milano…

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