Biennale di Venezia. Cecilia Alemani racconta il suo Padiglione Italia

Sarà “Il mondo magico” il titolo del progetto espositivo presentato oggi a Roma. Ci sarà una linea ideale a unire i lavori di Adelita Husni-Bey, Giorgio Andreotta Calò e Roberto Cuoghi? Come sarà l’allestimento? La curatrice anticipa tutto in questa intervista.

Un’italiana che cura il Padiglione Italia, ma con uno sguardo formatosi prevalentemente da New York. Come ha influito questa situazione inedita sulle tue scelte?
Può sembrare un paradosso, ma vivendo a New York il mio sguardo verso l’Italia e in particolare verso gli artisti italiani è un po’ più distante e obiettivo, proprio perché sono meno coinvolta nelle dinamiche locali di sistema, a volte anche un po’ autoreferenziali, che spesso contraddistinguono il nostro Paese.

Gli ultimi Padiglioni Italia hanno ricevuto critiche per i troppi artisti invitati. Tu ne hai scelti tre: credi di aver inaugurato un’inversione di tendenza?
Il mio obiettivo è stato quello di allinearmi a quello che fanno gli altri padiglioni nazionali, né più né meno. Inoltre il Ministero e la Direzione Generale, in particolare con il Direttore Generale Federica Galloni, nella lettera di invito a presentare un progetto per il Padiglione Italia avevano chiaramente espresso il desiderio di ridurre il numero degli artisti. E la visione proposta dal mio progetto era, ed è, assolutamente coerente con questo tipo di richiesta.

Individui una linea comune fra gli artisti che hai invitato? O li immagini come entità singole?
Nonostante le evidenti differenze stilistiche e di tecnica, questi artisti condividono una fascinazione per il magico (Il mondo magico è il titolo del mio progetto per il Padiglione), con molteplici riferimenti al rito, alla mitologia, al fantastico e all’immaginario, creando dispositivi attraverso cui abitare il mondo in tutta la sua ricchezza e molteplicità. Nelle loro opere, la realtà è reinventata ora con la fantasia e il gioco, ora con la poesia e l’immaginazione: il loro è un racconto intessuto di miti, rituali, credenze e fiabe. In questi riferimenti i tre artisti invitati cercano non una via di fuga nelle profondità dell’irrazionale, ma un mezzo cognitivo con cui affrontare e ricostruire la realtà.

Giorgio Andreotta Calò, 22 luglio 1911-22 luglio 2011, 2011. Immagine documentativa dell’intervento performativo, Teatro Margherita, Bari

Giorgio Andreotta Calò, 22 luglio 1911-22 luglio 2011, 2011. Immagine documentativa dell’intervento performativo, Teatro Margherita, Bari

Non mancherà chi rimarcherà un altro unicum, la tua nomina alla Biennale che quattro anni fa è stata curata da tuo marito. Ti ha aiutata questo precedente?
Mio marito ha curato la Biennale di Venezia, io curo il Padiglione Italia, sono due entità completamente diverse e separate, con processi di nomina, e nel caso del Padiglione Italia anche di selezione, completamente differenti. Nel mio caso sono stata selezionata dal Ministro Franceschini tra una rosa di dieci curatori invitati dal MiBACT a presentare un progetto per il Padiglione.
Poi è sicuramente vero che siamo entrambi professionisti che lavorano nello stesso campo, e abbiamo la fortuna di avere percorsi alle spalle molto solidi, con una forte apertura internazionale, ma anche molto diversi tra loro. Di solito all’estero è questo che conta, e ci si sofferma su chi sei per quello che hai fatto e per quello che sai fare. Fortunatamente sono abituata a ragionare così, del resto non mi preoccupo.

Dal tuo punto di vista privilegiato, qual è oggi l’importanza della Biennale di Venezia sul piano globale?
La Biennale di Venezia è una delle rassegne d’arte più importanti al mondo: la sua struttura – con la mostra internazionale costellata da ottanta padiglioni nazionali – la rende unica in tutto il globo. Sono proprio i padiglioni nazionali, con la loro polifonia di voci e sguardi, la forza di questo evento.

Come saranno organizzati gli spazi del Padiglione? Prevedi una suddivisione paritaria, una mescolanza, diversi pesi…?
Gli artisti hanno spazi separati, divisi a seconda delle esigenze di ciascuna opera. Ci sarà poi un percorso consigliato. Gli artisti sono stati invitati a instaurare un dialogo profondo con l’architettura, e pertanto non ci saranno partizioni o un grande sistema allestitivo: il mio desiderio è che il bellissimo spazio del Padiglione sia visibile e fruibile, e che non sia forzato per essere trasformato in un white cube.

Roberto Cuoghi, (SS(XIIIZ)pu-cmt), 2014 -particolare). Photo Alessandra Sofia

Roberto Cuoghi, (SS(XIIIZ)pu-cmt), 2014 -particolare). Photo Alessandra Sofia

Non temi che la forza (e l’esperienza) del lavoro di Cuoghi schiacci quelli di Andreotta Calò e di Husni-Bey?
Penso che la Biennale sia un’occasione non solo di affermazione di talenti (come nel caso di Cuoghi), ma anche una piattaforma per lanciare giovani artisti e dar loro un’opportunità imperdibile e unica in un momento cruciale della propria carriera. So a quali nuovi progetti stanno lavorando Andreotta Calò e Husni-Bey e sono sicura che le tre presenze saranno equilibrate tra loro.

Hai scelto tre artisti “difficili”, lontani ad esempio dalla pittura di più semplice fruizione. Non temi l’accusa di “concettualismo”?
No, non penso ci sia invece niente di concettuale nelle opere di questi artisti. Vedrete!

Fra le immancabili critiche preventive, quella più ricorrente sostiene: mai vista Cecilia Alemani a fare studio visit in Italia. È vero? E se sì: ritieni che non siano più utili?
Penso che al giorno d’oggi ci siano molti altri modi per conoscere e approfondire il lavoro di un artista, in mostre, biennali, libri, cataloghi e riviste d’arte… E ovviamente la tecnologia – Internet in primis – offre un grande supporto per colmare distanze. Fare il curatore oggi ha in questo senso enormi vantaggi rispetto al passato: si ha accesso a molte più informazioni e si può lavorare in tempo reale con gli artisti anche se non si è nello stesso Paese o sullo stesso fuso orario. E le studio visit e gli incontri dal vivo, nel mio caso, li faccio in occasione dei miei frequenti viaggi.

Adelita Husni-Bey, White Paper. The Land, 2014. Installation view at Beirut, Cairo

Adelita Husni-Bey, White Paper. The Land, 2014. Installation view at Beirut, Cairo

Pensando ai passati Padiglioni Italiani, qual è il progetto che ti ha convinto maggiormente?
Sicuramente il Padiglione di Ida Gianelli, con Vezzoli e Penone, alla Biennale del 2007.

Per molti Paesi il padiglione nazionale è una delle occasioni espositive più significative a livello internazionale. Come procedere per accrescerne l’autorevolezza anche in Italia?
Prima di tutto è importante seguire le metodologie espositive di tutti gli altri Padiglioni, cioè esporre uno o un numero ristretto di artisti. Il Padiglione Italia secondo me non deve presentare una panoramica sull’arte, alla ricerca di una presunta identità italiana, quanto piuttosto offrire agli artisti un’occasione imperdibile per realizzare il lavoro della loro vita e dare allo spettatore uno sguardo in profondità nel loro mondo. Almeno così si può entrare realmente in dialogo con le altre nazioni e non solo presentare lunghi elenchi di nomi. E poi è necessario avere un po’ più di fiducia per una generazione più giovane di artisti, che sono perfettamente in grado di reggere lo spazio da soli senza doversi arrampicare sulle spalle dei “maestri” degli Anni Sessanta.

Al di fuori degli (enormi) spazi del Padiglione Italia, negli spazi di quale altro padiglione nazionale ti piacerebbe allestire una mostra?
Mi è sempre piaciuto molto il Padiglione Nordico e quello canadese, sarà forse che entrambi sono al limite tra fuori e dentro…

http://www.labiennale.org/

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