Alla Galleria Nazionale di Roma si continua ad ampliare lo spazio del contemporaneo con due mostre: Corpo a Corpo, che descrive l’uso espressivo del corpo delle artiste femministe, e Uncinematic di George Drivas, artista greco e esponente del suo Paese alla Biennale.
Curata da Paola Ugolini, Corpo a Corpo ripercorre la Body Art dal punto di vista dei movimenti femministi. Già dai primi Anni Sessanta, attraverso gli happening e le performance collegate al teatro, il corpo viene focalizzato come il territorio centrale delle volontà liberatorie, attiviste e desideranti delle nuove esperienze artistiche. Carolee Schneemann, in Meat Joy, indica quello che sarà uno dei temi dominanti del decennio: l’orgia liberatoria. Idea che viene ripresa dal Living Theatre mettendo al centro il corpo nudo, libero dalle sue connotazioni e limitazioni sociali. In questo spiraglio aperto nell’arte visiva s’inserisce l’uso della performance per contestare e ridefinire la condizione femminile.

DA GINA PANE A CHIARA FUMAI
Gina Pane drammaticamente espone i problemi dei sentimenti, utilizzando il corpo come strumento, creando situazioni di violenza e pericolo fino a procurarsi ferite. Più tardi Marina Abramović e Ulay, in Relation in space, analizzano il loro rapporto personale dai punti di vista più controversi e antagonisti attraverso scontri fisici, reali e non simulati, un “situazionismo dei corpi” di prove “al limite” che descrivono la coppia e le sue dialettiche. Mentre nella danza i “solo” di Trisha Brown e Simone Forti modificano la gestualità femminile e ne reinventano il senso di forza e autonomia fisica. Nel presente Eleonora Chiari e Sara Goldschmied, Silvia Giambrone e altre ripercorrono il senso dell’attivismo di quegli anni. Il lavoro più forte di questa nuova ondata è forse quello di Chiara Fumai – artista che si è recentemente tolta la vita –, un video proiettato su un vasto schema del pensiero di Valerie Solanas. La Fumai scandisce a voce alta e chiara il radicalismo “estremo” dell’autrice di SCUM = Society for cutting up men e durante la lettura maneggia un grande coltello, anche se sarà con una rivoltella che la Solanas sparerà a Andy Warhol, per liberarsi, come disse, “della sua influenza”.

LA MONOGRAFICA DI GEORGE DRIVAS
Curato da Daphne Vitali, l’interessante e poco noto (in Italia) lavoro di George Drivas (Atene, 1969) si rifà al cinema d’artista e sperimentale e alla Nouvelle Vague, scegliendo l’immaginario fantascientifico, e rifacendosi al Godard di Alphaville come al Chris Marker di La Jetée. Fantascienza distopica severamente rappresentata con un bianco e nero d’epoca che sa straniare, paesaggi che possono essere forse Berlino e forse Atene o nessun luogo. Spazi vuoti, estranei, gelidi come i film di Matthew Barney. Personaggi muti e impassibili e musica elettronica ossessiva a commentarli.
La tecnica visiva usata è lo still-frame, sequenze d’immagini fisse poi collegate da dissolvenze continue, secondo le strategie del cinema di ricerca per spezzare il concetto di fedeltà di rappresentazione e asserire l’indipendenza dell’immagine cine/video dalla realtà cine/televisiva. Alfred Hitchcock diceva che “la realtà è a Colori e il Cinema è in Bianco e Nero”. Questo fa Drivas, suggerendo nelle sue immagini una metafora della realtà della Grecia e forse dell’Europa.
‒ Lorenzo Taiuti