La natura che si fa cultura. Intervista a Mark Handforth

Nella sua terza mostra personale da Franco Noero a Torino, Mark Handforth si misura con le sale decorate di un antico palazzo affacciato sulla storica piazza Carignano. La mostra è pensata per esaltare quel rapporto tra natura e cultura, tra organico e inorganico, tra astrazione e concrezione, che sono alla base del lavoro dell’artista.

Lontano dall’asetticità del cubo bianco, la scultura minimalista e organicista di Mark Handforth (Hong Kong, 1969; vive a Miami) e le sue installazioni di neon dialogano con i decori barocchi, producendo una serie di interessanti frizioni semantiche e percettive anche grazie al leitmotiv visivo della forma, semplice e complessa, della spirale; una forma che ha stregato artisti e matematici e che sta alla base della crescita delle conchiglie così come della forma delle galassie.
In una mostra inedita, Handforth espone lavori recenti, realizzati per Torino. Sono sculture di grande formato, “mobiles” e installazioni nate da un suo approccio muscolare e fisico alla scultura. Una mostra nata da un’ispirazione avuta in un bosco tedesco la scorsa estate, quando un serpente sbranato da un cane è passato da uno stato organico a forma pura, a cosa inanimata (scultura). Per celebrare questa visione, l’artista ha lottato con materie prime quali il ferro e l’ottone per ottenere forme semplici e vibranti, come se fossero schizzi e studi tridimensionali. A questi contrappone la grazia di ready made naturali, come grandi conchiglie ricoperte da candele accese e da colate di cera, che sono diventati una sua cifra stilistica e che a migliaia si consumano negli stessi giorni su una Fiat Panda installata dall’artista nella chiesetta Sant’Andrea di Schepis, sede romana della galleria di Gavin Brown.

Mark Handforth. After Nature. Exhibition view at Galleria Franco Noero, Torino 2017

Mark Handforth. After Nature. Exhibition view at Galleria Franco Noero, Torino 2017

L’INTERVISTA

Parliamo di questa mostra, in uno spazio che non è il classico cubo bianco.
Ogni tratto di queste sale è decorato, ci sono stucchi, ori e affreschi. Un’enormità di informazioni.

Al contrario del tuo lavoro, che ha un aspetto minimal, anche se possiede qualcosa di funky. Da dove sei partito?
Ho cercato di dialogare con lo spazio, di esaltarlo. Esso implica un’intera cultura visiva, non soltanto un linguaggio o uno stile artistico. Emana un senso di ricchezza e di potere, i volumi sono ben disegnati e decorati con affreschi magnifici.

Qui hai innescato una lotta tra la decorazione e il tuo minimalismo.
Per lui ho pensato una mostra con lavori nuovi e forme organiche, pensavo che fossero perfette per uno spazio che ha nelle forme organiche i motivi usati in funzione decorativa. Ovunque, in queste sale, si vedono motivi vegetali, specie le foglie, che tornano anche nei motivi più astratti.

Hegel ne La fenomenologia dello spirito sostiene che l’arte dorica e greca antica in genere appaiono per effetto di una sublimazione del bello naturale da cui prende avvio la storia dell’arte. Nei decori dei capitelli ritrova quel che tu dici, forme organiche tradotte in decorazione.
Tutto in queste sale mi sembra rimandare alla natura.

Come nelle grottesche.
Precisamente, ma in un modo strano, se vuoi, la natura è scomparsa.

È diventata cultura e linguaggio.
Se guardi i soffitti non vedi foglie, anche se ve ne sono molte, ma vedi forme geometriche o qualcosa come un linguaggio, al di là della natura.

Ecco perché hai intitolato la mostra After Nature.
Per dire che quando guardi una decorazione non vedi più la natura. Nel mio lavoro c’è questo approccio minimale alla natura che è presente ma non più visibile.

Natura che divenuta cultura.
Forme che sono qualcosa d’altro.

Mark Handforth, Tiergarten Rose, 2017

Mark Handforth, Tiergarten Rose, 2017

Il serpente è presente in questa mostra come una forma pura.
Tutto ha inizio da questo serpente che la scorsa estate in Germania è stato sbranato da un cane. Il cane gli aveva tolto la sua forma e il corpo morto aveva un aspetto davvero innaturale, diventando una specie di oggetto. Aveva una forma molto strana. Così l’ho congelato e poi una fonderia in Bavaria ne ha fatto una fusione in bronzo con la tecnica della cera persa. Solo che al posto del modello in cera ho usato il reale corpo morto del serpente.

Il serpente divenuto oggetto ti ha ispirato?
È stato come un incontro, un effetto di serendipity. Stai cercando idee e succede qualcosa di casuale che cambia il tuo modo di vedere. Quando lavori in un bosco spesso accadono fenomeni improvvisi e illuminanti. Per me quel serpente divenne come un pezzo di calligrafia, una forma astratta.

Il tuo lavoro gioca spesso sulla forma come trasposizione di organico e inorganico.
Sì, mi piace questa relazione tra naturale e innaturale, mi piace tenere insieme i due aspetti. Mi piace pensare che il bronzo ha preso il posto del corpo dell’animale. L’ho ambientato in questa camera tra dipinti in stile cinese ma del tutto occidentali che coprono le pareti. C’è molta fantasia, sono quadri che dichiarano cosa immaginavano da qui circa il mondo orientale.

Questo serpente diventa un totem attorno al quale le persone danzano.
Mi piace l’idea che la scultura pubblica possa catalizzare dei rituali o delle azioni divertenti e buffe, che possa innescare una reazione anche surreale nelle persone. La scultura mi interessa perché è tante cose: un oggetto fisico che sta lì nel mondo e perché nel suo stare sollecita delle relazioni. C’è una lunga tradizione di oggetti di tal fatta, specie nelle foreste. Mi piace questa relazione che non è una richiesta di interpretazione, ma una totale libertà di reazione, di amore oppure odio, di faccia a faccia.

Come scegli gli oggetti che poi scolpisci?
Ci sono forme a cui mi riferisco come le stelle, che hanno un significato simbolico enorme ma sono anche forme decorative. Scelgo oggetti a cui non devi pensare, li riconosci immediatamente perché sono nel backstage della tua mente. Anche la spirale è così. Va oltre la rappresentazione e la puoi avvertire in modo intuitivo.

Mark Handforth. After Nature. Exhibition view at Galleria Franco Noero, Torino 2017

Mark Handforth. After Nature. Exhibition view at Galleria Franco Noero, Torino 2017

Anche per questo non assembli spirali troppo riconoscibili come fanno Mario Merz, Richard Long o Robert Smithson, ma lavori come se, a mano libera, in modo distratto e veloce tracciassi un appunto per una spirale che poi prende i nomi di animali o piante. Sei più lirico e più indefinito…
Disegno spesso prima di scolpire ma di solito non mostro i disegni. Disegnare è molto diretto, ma mi piace anche essere sorpreso dalla fisicità dei miei lavori quando li finisco. Per questa spirale di metallo rosso (Red Fern) la mia ambizione era capire fin dove può arrivare la piegatura di un certo materiale.

Come l’hai realizzata?
Ho legato la barra all’auto e l’ho avvolta contro un tronco d’albero. A volte ho pensato che queste lavorazioni potessero diventare delle performance.

Una lotta corpo a corpo con i materiali.
Sì, per vedere come si comportano e cosa possono donare. Non mi piacciono i macchinari tradizionali di lavorazione.

Ti interessa più il processo della forma finale. E la luce?
È come il disegno, la luce è veloce, casual e rilassante. Uso luci generiche, non dispendiose. Uno dei paradossi nel mio lavoro è che nel fare sculture desidero essere diretto come nel disegno.

Passi dai neon alle candele sfruttando immaginari antitetici.
Sono entrambi sistemi di illuminazione davvero economici. Con le candele l’effetto è sublime.

Le hai usate su una Vespa Piaggio, su una Fiat Panda da Gavin Brown a Roma, ma qui da Noero le posi su tre grandi conchiglie.
Sì, se vuoi ha un effetto barocco. A Roma invece migliaia di candele in una chiesa, uno spazio semplice ma non finito.

Immagino tu abbia lavorato in spazi così solo in Italia.
Quel che mi accade in Italia di solito non mi accade altrove, è così diversa da ogni altro Paese, ha una relazione speciale e viva con la storia.

Mark Handforth, Yellow Collage, 2017

Mark Handforth, Yellow Collage, 2017

Sei come un mixologist, che sa miscelare cose molto diverse producendo gusti nuovi: usi Minimalismo, Surrealismo, Pop Art e Barocco, ma come fai a tenerli insieme?
Come artista ho sempre voluto essere totalmente libero e non ho mai capito le restrizioni, non capivo davvero perché dovessi seguire qualche scuola. Se vuoi scuotere la società e lo fai organizzato in una scuola non ha senso. Crescendo ho visto cambiare il mondo: siamo passati dalle idee fisse a quello fluido di oggi.

A una globalizzazione dei linguaggi.
Sono cresciuto a Hong Kong poi Londra, quindi Stati Uniti. Ho attraversato culture diverse. Se sei artista il tuo lavoro riflette il tuo modo di vivere, credo. Ad esempio mi piace quando gli oggetti minimalisti sono rotti, scheggiati perché c’è un po’ di sale almeno. Quando Walter De Maria fa la Earth Room il minimalismo è solo apparente: c’è la terra, l’odore, il senso, la natura, la bellezza. Mi sembra più vicino alla vita.

Sei uno dei pochi artisti con uno studio a Miami.
Qui ho trovato tante cose che a New York non c’erano, né a Francoforte dove ho studiato arte. Ogni luogo mi influenza.

Le candele sono una tua cifra stilistica. Dove le hai trovate?
Le scoprii arrivando a Roma: avevo lasciato i miei comodi spazi bianchi e trovavo luoghi che mi sollecitavano. A Roma la gente fa con le candele cose davvero singolari. Mi piacciono perché sono malleabili e fluide, la scultura con loro sopra cambia in continuazione. E se vuoi conservare le colature è impossibile, sono troppo fragili. Le candele sono libere ed evanescenti.

Mark Handforth, 2017. Photo Nicola Davide Angerame

Mark Handforth, 2017. Photo Nicola Davide Angerame

Al Museo di Villa Croce di Genova nel 2014 hai usato molti neon, invece, posizionati a terra e a parete.
Ecco un altro spazio fantastico, sì li avevo pensate per creare un paesaggio. Per me sono come sculture, la luce riesce a occupare il volume delle sale anche se in modo etereo.

Quando sei diventato così libero?
In Accademia, non ho studiato con Martin Kippenberger ma era lì a Francoforte e la sua libertà ha avuto molta influenza su di me. Non dava importanza alle scuole tradizionali. Quando arrivai a New York nei primi Anni Novanta, iniziando a parlare con Gavin Brown, non c’era proprio nessuna scuola. Ci fu un collasso collettivo e non c’era una guida o un gruppo che stessero controllando il sistema. Ciò lasciò liberi molti artisti di fare ciò che volevano.

Gli Anni Ottanta erano più settari.
Dovevi riconoscerti in un gruppo, una tendenza, una scuola, una identità come quella concettuale, la pittura, la Street Art, la performance.

C’erano ancora le ideologie, la contrapposizione Usa e Urss.
Ricordo che a scuola avevamo personaggi come Jörg Immendorf o Miroslaw Balka, ma oggi non è più così.

Erano figure forti.
Erano molto fiduciosi in ciò che facevano. In Inghilterra non è così, credo sia perché nasciamo insicuri, forse è una questione di geni, ma in Germania sono tutti solidi e sicuri. Per me Kippenberger era così, faceva lavori a getto continuo.

Sei produttivo anche tu?
Non così, ma per fare una mostra lo divento.

Hai fatto molti progetti di arte pubblica. Che cosa cerchi rispetto allo spazio chiuso?
La nostra cultura penso sia fondata oggi sulla conversazione e la trasmissione di idee a gruppi di persone. L’esperienza privata è importante, nel chiuso la puoi controllare. Qui da Franco ho voluto creare quest’opera di neon (Rolling Rose) a parete che sia visibile da chi transita per piazza Carignano, specie con il buio. Ho pensato un’opera di arte pubblica a partire dal chiuso della galleria. Nella mia ultima mostra al Modern Institute di Glasgow ho costruito un parco di fronte alla galleria. Mi piace sfruttare le opportunità. Quando un progetto di arte pubblica funziona bene, è il massimo.

Nicola Davide Angerame

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Nicola Davide Angerame

Nicola Davide Angerame

Nicola Davide Angerame è filosofo, giornalista, curatore d'arte, critico della contemporaneità e organizzatore culturale. Dopo la Laurea in Filosofia Teoretica all'Università di Torino, sotto la guida di Gianni Vattimo con una tesi sul pensiero di Jean-Luc Nancy, inizia la collaborazione…

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